giovedì 21 Novembre 2024

Si parla solo di concessioni balneari, ma in Italia a sparire sono le spiagge libere

Direttiva Bolkenstein, autorizzazioni, lidi in sciopero: questi gli argomenti che dominano la narrazione relativa alle spiagge italiane, da mesi al centro dell’attenzione mediatica per il braccio di ferro UE-Meloni in materia di concessioni balneari. Eppure, mentre tutti parlano di chi debba avere il diritto di gestire le spiagge italiane, i nostri litorali vengono silenziosamente sempre più mangiati da un’ondata di liberalizzazione e privatizzazione sfrenata. Di fronte alle incessanti richieste di fornire un serio rapporto sulle spiagge italiane, il Governo non fa altro che riproporre i soliti dati fumosi per salvare il salvabile e mantenere le promesse fatte alla categoria in campagna elettorale: le spiagge occupate in Italia sarebbero pari al “33 per cento delle aree disponibili”, quindi ci sarebbe spazio non solo per mantenere salde le concessioni già attive, ma addirittura per elargirne di nuove. Questi numeri tuttavia paiono ben lontani dalla realtà, e sembrano piuttosto dimostrare quanto l’Italia sia ancora indietro nel fornire un’adeguata mappatura delle proprie spiagge.

I lavori di mappatura delle spiagge sono stati portati avanti col fine di escludere le concessioni sui litorali italiani dalla cosiddetta direttiva Bolkenstein, una direttiva dell’Unione Europea che ruota intorno al tema della liberalizzazione delle concessioni balneari, obbligando gli Stati a indire nuovi bandi pubblici per le loro assegnazioni. Dopo una prima relazione provvisoria, solo il 19% delle spiagge italiane risultavano occupate. I dati, tuttavia, erano interamente sfalsati: per redigere il primo rapporto, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) ha considerato i numeri forniti dal SID (Sistema Informativo del Demanio marittimo), includendo su sua stessa ammissione l’intero litorale del Belpaese; nel documento si legge infatti che “per la quantificazione della linea di costa, il tavolo ha ritenuto di considerare tutto il litorale, a prescindere dalla sua morfologia“. C’è comunque da sottolineare che la superficie totale delle sole spiagge italiane balneabili (che a intuito dovrebbero essere le sole a venire considerate in una simile mappatura) risulta ancora oggi ignoto. Secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), in Italia rimangono appena 120 chilometri quadrati di spiagge, pari a circa il 41% della superficie lineare della costa italiana. Questa, comunica sempre l’ISPRA, sarebbe lunga oltre 8.300 km, dato che tuttavia entra in contrasto con quello del SID, che parla di più di 11.100 km di costa.

Già solo il fatto che due diverse fonti dotate dello stesso grado di ufficialità forniscano dati così differenti risulta a dir poco problematico. Resta tuttavia saldo che, se si comparano i dati sulla superficie delle spiagge elaborati dall’ISPRA con quelli utilizzati dal rapporto preliminare del MIT, si ottiene una percentuale pari a oltre il 64% della superficie dei litorali occupata da stabilimenti balneari, ben lontana dal 33% rivendicato dal Governo. Ma non finisce qui: a fine ottobre, infatti, è stata pubblicata la versione finale del rapporto del MIT, che, rivedendo i numeri, ha concluso che a essere occupata da stabilimenti balneari sarebbe il “33% delle aree disponibili”, formula a dir poco fumosa e poco limpida. Il documento ufficiale non è pubblico, ma diverse fonti giornalistiche che lo avrebbero visionato parlano di 127 milioni di metri quadrati di superficie occupata, il che significa che 127 chilometri quadrati sarebbero riservati agli stabilimenti, più della stessa totalità delle spiagge secondo i dati ISPRA.

Oltre all’assurdità di tale dato, come sottolinea Legambiente nel suo Report Spiagge 2024, anche nel caso del rapporto finale “il calcolo è stato effettuato sul totale della costa italiana e non sulle sole aree balneabili e di costa bassa”. Anche l’Unione Europea se n’è accorta, e ha avviato una procedura di infrazione contro Roma. Il tema delle concessioni, in ogni caso, non si può ridurre al solo numero di spiagge libere presenti in questo momento sul territorio italiano. La quantità di litorali pubblici, infatti, non è solo ridotta, ma anche sempre più piccola: a fine 2023, secondo l’ultimo rapporto di Unioncamere, sarebbero state 7.244 le imprese registrate nel settore della gestione di stabilimenti balneari, numero in crescita rispetto al 2022. Sempre secondo Unioncamere, la costa romagnola sarebbe quella che ospita il maggior numero di imprese balneari (pari a circa il 14,5% del totale nazionale) seguita a ruota da Toscana e Liguria. Nel meridione e nelle isole, la presenza di stabilimenti sarebbe nettamente inferiore, eppure, il loro numero starebbe crescendo a dismisura: dal 2011 a oggi la Sardegna avrebbe triplicato le proprie imprese balneari, la Calabria le avrebbe viste raddoppiare, e la Sicilia si sarebbe limitata a un “misero” incremento del 75,4%. I dati di Unioncamere, va rimarcato, cozzano con quelli forniti da Legambiente, che ragiona su ordini numerici molto più grandi: solo nel 2021 l’associazione ambientalista contava infatti 12.000 stabilimenti balneari. Agli stabilimenti vanno aggiunte anche le altre strutture di natura antropica e il fenomeno dell’erosione delle coste, che, come sottolineato da un rapporto dell’ISPRA, stanno finendo per restringere sempre più i litorali italiani.

Da quanto emerge dalle analisi dei dati, spesso contrastanti tra di loro, pare essere abbastanza evidente come l’Italia sia ancora particolarmente lontana dal restituire una reale mappatura delle proprie spiagge. Tale problema è poi reso ancora più complicato dalla legge italiana. Le disposizioni che regolano la proporzione tra spiagge libere e concessioni balneari, infatti, risultano particolarmente vaghe: esse non stabiliscono alcuna percentuale minima di spiaggia che deve essere lasciata libera, e si limitano a sancire che tra concessioni e bene pubblico deve vigere una “adeguata proporzione”. Spiagge libere e stabilimenti dovrebbero inoltre essere “intervallate”, e, almeno in teoria, i litorali pubblici non dovrebbero finire confinati nelle aree di minore attrazione.

[di Dario Lucisano]

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5 Commenti

  1. Questa servitu’ costituita da stabilimenti che occupano il litorale e’ da eliminare totalmente. A mia conoscenza l’Italia e’ l’unico Paese dove una congrega di profittatori si e’ impossessata delle spiagge. Negli altri Paesi le spiagge sono liberamente accessibili a tutti. Il Comune di riferimento deve provvedere a dare licenza di affittare ombrelloni e sedie a chi lo richiede, cosi come chioschi per bibite e cibo, altresì sono i Comuni che devono provvedere alla pulizia giornaliera. La nuova spiaggia libera di Portici puo’ gia’ essere un esempio. Cioe’ si tratta di proibire a chiunque di occupare e considerare la spiaggia come proprio dominio.

  2. C’è un pò di confusione sui numeri nell’articolo quindi faccio alcune precisazioni: 1)una cosa sono i km quadrati altra cosa i km lineari. Se ad esempio uno stabilimento in una spiaggia molto larga occupa il fronte delle riva per 30 metri ma si addentra nella spiaggia per 70 metri lo stabilimento occupa 210mq di spiaggia ma solo 30metri di riva. 2)Il fatto che i km lineari siano diversi a seconda del soggetto che li misura dipende anche da QUANDO la superficie lineare della costa è stata misurata infatti a causa dei moti del mare la lunghezza delle coste cambia da un anno all’altro. Giusto per puntualizzazione!

  3. Aldilà dei tanti casini di questo esecutivo , io continuo a non capire l’intromissione dell’Europa sulla gestione delle coste italiane, visto che non è a salvaguardia del territorio ma a per gestire una speculazione sovranazionale.

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