Dopo un anno dal referendum che ha visto i cittadini dell’Ecuador votare per frenare le trivellazioni petrolifere nel Parco Nazionale Yasuní, cuore della Foresta Amazzonica del Paese, le esplorazioni non sono ancora terminate. Eppure oltre al danno, è arrivata anche la proverbiale beffa: il Governo non avrebbe infatti solo mancato di interrompere le operazioni di estrazione di petrolio nell’area, ma starebbe anche cercando una via di uscita in una proroga della durata di cinque anni per ritardare lo smantellamento della compagnia petrolifera statale. «Dovremmo già avere risultati avanzati, e la chiusura della compagnia dovrebbe essere quasi completata», ha denunciato Juan Bay, Presidente di una organizzazione che rappresenta il popolo Waroani, una delle comunità indigene che abitano il territorio del Parco di Yasunì; ma il Governo «non si è voluto impegnare» per portare avanti lo smantellamento ed «è mancata la volontà politica di rispettare i diritti del popolo ecuadoriano, come sancito dalle urne».
Il referendum per decidere le sorti del Parco di Yasunì si è tenuto l’anno scorso, e ha visto il fronte anti-trivelle vincere raggiungendo il 60% della popolazione. In seguito al voto, la Corte Costituzionale ha stabilito che lo Stato avrebbe avuto un anno di tempo per completare le operazioni di smantellamento delle strutture e degli impianti. Eppure, i lavori sembrerebbero ancora in alto mare. Come riporta l’agenzia di stampa Associated Press, già ai tempi della sentenza, vari analisti ritenevano che le scadenze imposte al Governo fossero troppo ristrette: secondo molti, insomma, gli oltre cinque decenni di sfruttamento petrolifero e l’ingente entrata economica nelle casse dello Stato avrebbero reso troppo difficile e dispendioso chiudere i battenti in soli dodici mesi. E così, all’inizio di agosto, il Governo ha chiesto alla Corte Costituzionale di allungare i termini della scadenza, chiedendo una proroga di minimo cinque anni e cinque mesi. Come sottolinea Bay, tuttavia, la lunghezza dei tempi richiesti dal Governo suggerirebbe una scarsa volontà politica di fondo nel portare avanti lo smantellamento degli impianti: «sapevano già che non avrebbero tenuto fede agli impegni», ha aggiunto Kevin Koenig, direttore del clima, dell’energia e dell’industria estrattiva di Amazon Watch; «stanno usando un mucchio di argomenti tecnici, ma sembra che stiano solo cercando di gettare fumo negli occhi della gente», così da potere continuare a portare avanti le estrazioni di petrolio indisturbati.
Il Parco Nazionale Yasuní è stato istituito nel 1979 su una superficie di 1.022.736 ettari. Nel 1989 l’Unesco lo ha dichiarato Riserva della Biosfera e nel 1999 è stata creata la riserva integrale Zona Intangibile Tagaeri-Taromenane (ZITT). Nonostante a Yasuní siano stati segnalati dati sorprendenti sulla biodiversità per diversi gruppi di flora e fauna – qui sono state trovate più di 2.000 specie di alberi e arbusti, 204 mammiferi, 610 uccelli, 121 rettili, 150 anfibi e più di 250 pesci – nell’ottobre 2013 l’Asssemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato l’estrazione di petrolio in un’area di 1.030 ettari nel cosiddetto eje ITT. Tre anni dopo è iniziata l’estrazione di greggio, che secondo la compagnia petrolifera statale Petroecuador ha fruttato allo Stato più di 4.500 milioni di dollari di entrate. A Yasuní , oltre al popolo Waoranim, risiedono altre due diverse comunità indigene, che risultano tra le più grandi popolazioni a vivere volontariamente isolate dal resto del mondo: i Taromeane e i Tagaeri.
[di Dario Lucisano]