Come il ciliegio, che sulla cima protegge
l’ultimo frutto rimastogli,
così io su una camicia consunta custodisco
un solo unico bottone.
Quando non c’è più ricordo, né speranza
e quanto il fardello diventa troppo pesante,
sul petto mi trastullo col bottone,
che mi hai cucito.
Malgrado gli anni e la fame,
malgrado il sonno e la neve,
tu mi hai imbastito a questa vita sdrucita
con un filo d’amore e d’eternità..
La notte ha vinto sul giorno.
Io cerco
almeno un’unica luce dalla finestra.
Ma non c’è finestra.
La vita mi brucia in petto,
sul bottone che mi hai cucito.
(traduzione di Paolo Pantaleo)
Essere superstite. Essere l’ultimo bottone oppure un poeta e giornalista lèttone condannato dai sovietici, per le proprie idee di libertà, a passare anni di detenzione in un gulag. Nessuna differenza per chi è maestro di metafore.
Sentirsi come un bottone da custodire perché rappresenta il fronte finale, la barriera insuperabile perché tutto non crolli.
Il destino non troppo differente, per un poeta, da quello cantato dall’antica, immortale Saffo che parlava dell’ultimo frutto, il più bello, anzi la più bella, dimenticata lassù sul ramo, dai ‘malodropes‘, dai raccoglitori; questa l’ impronta che si può cogliere nel ciliegio immaginato da Knuts.
Cucire amore ed eternità, creare legami lievi e sicuri, densi come il tempo che nella prigionia non passa mai.
Che cosa è mai la libertà se non una luce dalla finestra, sapere che un domani ci sarà perché la lunga notte dovrà finire.
Essere superstite al dominio della oscura forza politica, essere superstite immaginando che fioriranno e fruttificheranno altri ciliegi.
Accarezzare il bottone come un gioco di bambini, come un rosario pieno di visioni, come una innocua arma, come un segno di legami inestinguibili con quel ‘tu’ remoto che occupa il cuore.
Un’anima dunque attaccata a doppio filo al bottone, a quella camicia consunta che è meglio di una bandiera, che muove pensieri di affrancamento, una bandiera al vento di chi non è mai veramente solo, mai l’ultimo di fronte agli oppressori.
[di Gian Paolo Caprettini]