Lo Stato italiano confisca ai pentiti di mafia il denaro che lo stesso gli dovrebbe garantire per stabilizzare la propria situazione in seguito alla chiusura del programma di protezione. È quanto ha denunciato l’avvocato Luigi Li Gotti, storico legale del super-pentito del Maxiprocesso Tommaso Buscetta, ma anche di altri ex “pezzi da novanta” di Cosa Nostra come Giovanni Brusca, Totuccio Contorno e Gaspare Mutolo. Il caso riguarda, nello specifico, le operazioni effettuate dall’Agenzia delle Entrate, che ultimamente sta provvedendo alla confisca di quei fondi previsti nella capitalizzazione della collaborazione con la giustizia, utilizzati per dare concretezza al “progetto di vita” (tassello principale è quello dell’acquisto di una casa) dei vari pentiti di mafia. Che, oltre al fisiologico isolamento sociale, potrebbero ora imbattersi anche in quello economico. Tale meccanismo rischia di creare seri problemi al sistema della collaborazione con la giustizia, fortemente voluto da Giovanni Falcone, che negli ultimi decenni ha costituito la vera chiave di volta per la lotta alla mafia, nonché ai settori politici, istituzionali e imprenditoriali che la sostentano dall’esterno.
Come ben spiegato dall’avvocato Li Gotti in un intervento su Antimafia Duemila, i collaboratori di giustizia sono ammessi nel programma di protezione per un certo lasso temporale, che solitamente non supera i 5 anni, nella cui cornice vengono loro assicurati un appartamento in un luogo riservato, un’assistenza economica e un’assistenza legale. In assenza di proroga, dovuta alla mancanza dei presupposti di attualità (ovvero in cessazione dei pericoli e degli impegni processuali) lo Stato assicura l’uscita dal programma, incentivandola attraverso la corresponsione al collaboratore di una somma pari a 5 anni di indennità – siamo intorno ai 40-50mila euro – dietro la presentazione di un cosiddetto “progetto di vita”. Generalmente, il Servizio Centrale di Protezione preferisce che esso sia costituito da un bene materiale, ovvero dall’acquisto di una casa, al fine di stabilizzare la situazione logistica del soggetto. Parallelamente, però, i collaboratori di giustizia che vengono imputati in processi e che, anche in caso di “pentimento”, vengono condannati (seppure con sconti di pena), subiscono ovviamente il carico delle spese di giustizia e di detenzione. Spese spesso ingenti, pari anche a milioni di euro. E proprio qui è emerso l’inghippo. «L’Agenzia delle Entrate ha deciso di pignorare o confiscare le somme che lo Stato si impegna a dare al collaboratore di giustizia che esce dal programma – denuncia esplicitamente Li Gotti -. Da una parte lo Stato dà questi soldi, dall’altra aggredisce questo denaro per il recupero delle spese di giustizia. Il collaboratore che esce dal programma si trova improvvisamente senza un tetto e senza un euro».
Un cortocircuito che potrebbe essere foriero di numerosi effetti deleteri. Li Gotti spiega ad esempio di avere «clienti che hanno fatto comminare ergastoli e, trovandosi in questa situazione, dicono “ma noi che facciamo? A questo punto torniamo nei nostri luoghi d’origine”. Ma lì rischiano concretamente di subire la rappresaglia dei mafiosi, perché grazie alla loro collaborazione si è arrivati a comminare condanna definitive per pene pesanti. Ricordiamoci che alcuni di questi collaboratori hanno figli minori». L’altra conseguenza è “di sistema”, dal momento che, come afferma Li Gotti, questo meccanismo «è un freno totale a nuove collaborazioni, perché chi dovesse decidere di collaborare, pensando a quello che succede quando la sua collaborazione non serve più e viene messo in mezzo a una strada, prima di farlo ci pensa mille volte». Sentito da L’Indipendente, Li Gotti lancia un appello al governo, invitandolo ad approvare al più presto «un decreto in cui dichiara non confiscabili le somme date per il “progetto di vita”, liquidate in base alla legge ai collaboratori che escono dal programma di protezione». L’avvocato critica poi l’immobilismo delle forze politiche, che a suo parere starebbero facendo «melina» sulla questione, non considerando l’incidenza di un sistema che potrebbe comportare «problemi di ordine pubblico».
Il magistrato Giovanni Falcone fu il principale promotore di una legge, entrata in vigore nel 1991, che ha introdotto la possibilità per i pentiti e i loro familiari di usufruire del cosiddetto “programma di protezione”. L’istituto della collaborazione con la giustizia è stato però successivamente depotenziato dalla Legge n.45/2001, che ha apportato modifiche significative alla disciplina, con la riduzione e la limitazione nel tempo dei benefici penali, regole più severe sui familiari dei pentiti che possono accedere al programma di protezione, il limite di 180 giorni dato al collaboratore per fornire tutte le informazioni rilevanti e la confisca di tutti i beni di origine illecita a chi sceglie di collaborare. Ciò ha comportato una forte riduzione del numero dei collaboratori di giustizia in Italia, passato dai 1.214 del 1996 ai 1.120 del 2012. Ora, in combinato disposto con la demolizione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi a opera della CEDU e della Corte Costituzionale, lo spaccato scoperchiato e nitidamente descritto da Li Gotti rischia di infliggere il colpo del K.O. al sistema del pentitismo.
[di Stefano Baudino]
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