mercoledì 18 Settembre 2024

Un nuovo studio mette in discussione le teorie storiche sull’Isola di Pasqua

Al contrario da quanto ipotizzato precedentemente, l’Isola di Pasqua non ha mai subito un drastico crollo demografico dovuto allo sfruttamento eccessivo delle risorse ed al conseguente collasso della società: lo riporta una nuova ricerca condotta da un team internazionale di scienziati, sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sulla prestigiosissima rivista scientifica Nature. Lo studio si è basato sull’analisi del DNA di 15 ex abitanti dell’isola, le quali non hanno mostrato alcun segnale genetico corrispondente ad un forte calo della popolazione, la quale invece sarebbe stata di dimensioni contenute almeno fino al 1860. «Sicuramente non si è verificato un forte crollo demografico, come è stato sostenuto, un crollo demografico in cui l’80% o il 90% della popolazione è morto», ha commentato J. Víctor Moreno-Mayar, professore associato di geogenetica presso il Globe Institute dell’Università di Copenaghen in Danimarca e coautore della ricerca.

L’Isola di Pasqua, nota anche con il suo nome indigeno Rapa Nui, è un’isola vulcanica della Polinesia che appartiene politicamente al Cile. È nota per i suoi misteriosi Moai: enormi teste di tufo scolpite dagli indigeni tra il XIII e il XVI secolo. Secondo alcune teorie proposte anche dal geografo e storico Jared Diamond, la popolazione sarebbe andata in contro ad un crollo a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, in particolare delle foreste, portando a disastri ambientali, conflitti interni e un drastico calo della popolazione. Tuttavia, la nuova ricerca pubblicata sulla rivista Nature mostra risultati in direzione opposta: studiando il DNA di 15 ex abitanti degli ultimi 400 anni, non esiste alcuna prova di ciò. Anzi, secondo il documento, l’isola ospitava una piccola società che aumentò costantemente di dimensioni fino a quando, nel 1860, i razziatori di schiavi provenienti dal Perù avrebbero rimosso con la forza un terzo della popolazione. Inoltre, i genomi studiati hanno rivelato che gli abitanti avevano scambiato alcuni geni con una popolazione di nativi americani e ciò, secondo i ricercatori, suggerisce che alcuni indigeni dell’isola abbiano attraversato l’oceano verso il Sud America tra il 1250 ed il 1430, ben prima dell’arrivo di Colombo. Infatti, i ricercatori hanno spiegato che circa il 6-11% dei genomi degli individui può essere ricondotto ad antenati sudamericani, e secondo le stime l’incontro sarebbe avvenuto da 15 a 17 generazioni precedenti rispetto agli abitanti analizzati.

«Il paesaggio di Rapa Nui è cambiato tra il popolamento dell’isola, che risale al 1200 circa, e il contatto con gli europei 500 anni dopo. Tuttavia, la stabilità della popolazione durante questo periodo dimostra che si trattava di una popolazione resiliente, in grado di adattarsi alle sfide ambientali», ha affermato Bárbara Sousa da Mota, ricercatrice presso l’Università di Losanna e coautrice dello studio. «Personalmente, credo che l’idea del suicidio ecologico sia messa insieme come parte di una narrazione coloniale. Questa è l’idea che queste persone presumibilmente primitive non riuscissero a gestire la loro cultura o le loro risorse, e che ciò abbia quasi distrutto la loro gente. Ma le prove genetiche mostrano il contrario. Non solo non ci sono prove di un crollo della popolazione prima che gli europei arrivassero sull’isola, ma i dati mostrano anche che erano capaci di viaggi ancora più formidabili attraverso il Pacifico di quanto fosse stato precedentemente stabilito, raggiungendo infine le Americhe. Quindi possiamo mettere da parte queste idee ora», ha poi concluso Víctor Moreno-Mayar professore associato presso la sezione di geogenetica del Globe Institute dell’Università di Copenhagen e coautore della ricerca.

[di Roberto Demaio]

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