venerdì 27 Settembre 2024

Xylella, turismo e fotovoltaico: cosa resta del paesaggio salentino dopo 10 anni di emergenze

«Se hai un figlio malato, cosa fai, lo ammazzi?» Era l’estate del 2015, e mentre passeggiavo tra le bancarelle della festa del Grano di Acquarica del Capo, sentii queste parole, pronunciate da Nandu Popu, artista leccese e cantante del gruppo Sud Sound SystemDa quando nel 2013 si riscontrò il disseccamento di alcuni ulivi nell’area sottostante la città di Gallipoli, probabilmente nessuno poteva concepire quello che negli undici anni successivi sarebbe accaduto; inimmaginabili erano i risultati e le conseguenze di scelte, battaglie, ordini istituzionali, internazionali e no, che, uniti al semplice corso della natura e dei suoi elementi, si sono alla fine abbattuti sul territorio. L’impatto ambientale e sociale vissuto dal Salento e dalla sua popolazione in questo decennio è ormai Storia, per la quale adesso è necessario riavvolgere il nastro e mettere in luce ogni aspetto di questo racconto, per muovere scelte più oculate nella gestione di quanto è rimasto, e per lasciare ai posteri la possibilità di muovere un giudizio se non giusto, quantomeno più consapevole.

La superficialità mediatica e politica sulla «questione Xylella»

L’anomalo disseccamento che intorno al 2013 stava coinvolgendo gradualmente numerosi alberi di ulivo nell’area sudoccidentale della pianura salentina raggiunse l’attenzione della Regione Puglia, la quale tentò rapidamente di risalire alle cause per attuare un piano di risoluzione. Le ricerche condotte da scienziati, che analizzarono molecolarmente i prelievi fatti sulle piante, portarono alla scoperta di un batterio, denominato Xylella fastidiosa, che, raggiungendo gli alberi attraverso la propagazione di un vettore aereo, avrebbe potuto contribuire al disseccamento delle piante, colpendo la diffusione linfatica dalle radici alle chiome. L’ipotesi, proposta da esperti come Giovanni Martelli, denotava però, come il batterio diffusosi in Salento non infettasse piante di vite e di agrumi, e che, in ogni caso, in altri contesti geografici, tra i quali la California, Xylella non rappresentava un elemento di rilevante patogenicità per le piante d’ulivo. In attesa di organizzare un piano d’azione per il contrasto al disseccamento, il professore proponeva la delimitazione dell’area contaminata, l’identificazione di una zona tampone e l’interruzione di movimentazione di piante e materiali di propagazione tra le aree interessate dal fenomeno. Nonostante mancassero evidenze scientifiche, la Regione Puglia mantenne elevato il livello di allarmismo, cercando di imporre una soluzione drastica ad un problema non ancora ritenuto tale dal comitato scientifico.

La pianura salentina è caratterizzata dalla presenza di ulivi secolari, definiti dalla legge come «monumentali», e quindi di estrema importanza per l’ecosistema ambientale del territorio; il governo regionale, non avendo la possibilità di attuare alcuna politica in merito, richiese al governo nazionale, attraverso il protocollo del 2014 N. 4128/SP, lo stato di emergenza, che ebbe inizio nel febbraio del 2015 e si concluse, dopo il rinnovo per un ulteriore semestre, nel febbraio 2016. Nei dodici mesi di commissariamento straordinario si procedette con l’approvazione del piano di abbattimento degli ulivi infetti, tra i quali ulivi secolari, imponendo inoltre, l’eradicazione di tutti quegli alberi non infetti presenti su un raggio di cento metri dalla pianta ospitante il batterio. Furono questi gli anni durante i quali si concentrarono le proteste di una parte popolazione locale, contrarie non solo all’eradicazione, ma ad una scelta imposta dall’alto in maniera avventata, considerando l’opinione della comunità scientifica e accademica che non riscontrava una relazione incontrovertibile tra batterio e disseccamento. L’opinione pubblica nazionale, invece, rappresentata dalla stampa generalista e dalle istituzioni politiche al governo non tardò a schierarsi contro ogni eventuale forma di scetticismo, tacciando di complottismo, retrologia e pseudoscienza, pareri che fino a prova contraria si alimentavano di studi accademici e analisi compiute da batteriologi.

A pochi mesi dal termine dello stato d’emergenza, intervenne sulla questione la Procura di Lecce, aprendo un’indagine e mettendo sotto sequestro gli ulivi sui quali si stava applicando l’ordinanza di eradicazione. La motivazione delle indagini si basava sull’assenza della relazione causa-effetto tra batterio e disseccamento, sulla carenza di ragioni nell’attuazione dello stato d’emergenza, e di conseguenza sui finanziamenti che quest’ultima aveva ricevuto. Il sequestro degli ulivi imposto dalla magistratura si concluse nel luglio del 2016 e, nonostante lo stato di emergenza fosse ormai terminato da sette mesi, il governo della regione decise di riapplicare i procedimenti emergenziali di eradicazione degli alberi infetti e delle piante non infette circostanti, sebbene l’operazione non rientrasse, nuovamente, nei poteri regionali. Venne così introdotta la Legge regionale 4/2017, nella quale si ufficializzarono le soluzioni proposte in stato d’emergenza, oltre all’implementazione di finanziamenti per chi eseguisse l’abbattimento dei propri alberi, alla quale si aggiunse il «Decreto Martina» del 2018 e il Decreto ministeriale del 2022 che reintrodussero ufficialmente le soluzioni d’emergenza contro la Xylella e, nel mentre, il Decreto “Centinaio” a marzo 2019 (poi convertito nella L. 44/2019) che prevede in tutta la zona infetta (province di Lecce e Brindisi) la possibilità di abbattere ulivi per 7 anni in deroga a ogni normativa a protezione dell’ambiente e del paesaggio – senza alcun obbligo di dimostrare che gli ulivi siano positivi a Xylella, né tanto meno, disseccati – oltre ad aggiungere sanzioni fino a 30.000 euro per chi non avesse ottemperato all’eradicazione, e fino a 60.000 euro per chi avesse impedito l’attuazione delle pratiche d’abbattimento.

Se da un lato le istituzioni imposero l’abbattimento, iscrivendosi in un contesto fortemente catastrofistico, alimentato dai media e dalla stampa; dall’altro la Commissione Europea, attraverso la decisione d’esecuzione UE 2017/2352 del 14 dicembre 2017, attuò una deroga alla decisione di esecuzione (UE) 2015/789 relativa alle misure per impedire l’introduzione e la diffusione nell’Unione della Xylella fastidiosa, permettendo l’impianto in territorio infetto di due tipologie d’ulivo, il leccino, cultivar non autoctona e autosterile, e l’FS17, detta anche «Favolosa», brevettata dal CNR, nata come portainnesto clonale dell’ulivo. Le opinioni su queste cultivar, però, sono tuttora divergenti: difatti, se alcuni ricercatori del CNR assicurano sul fatto che possano essere resistenti a Xylella, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) in base ad alcuni studi, ha riscontrato come queste piante si caratterizzino per una tolleranza al batterio e una «possibile resistenza». È necessario, quindi, notare come, nonostante non siano presenti evidenze scientifiche che dimostrino l’immunità delle cultivar all’infezione (anzi, il contrario), il governo regionale e nazionale abbia applicato ugualmente la deroga sulla piantumazione delle suddette cultivar. Le caratteristiche agricole di Leccino e Favolosa si distanziano rispetto alle cultivar autoctone, a causa della limitata produttività rispetto alle seconde e per la maggiore quantità d’acqua necessaria per la rispettiva coltivazione, peculiarità da tenere in considerazione in un territorio arido come quello salentino. Inoltre, le ricerche di alcuni esperti come Marco Scortichini, hanno dimostrato che determinate varietà autoctone, quali Ogliarola e Coratina, risultino non solo meno interessate all’infezione da batterio, ma anche meno colpite dai sintomi del disseccamento rispetto alle piante di Leccino.

«Abbiamo dimostrato che, sui dati dei monitoraggi ufficiali della Regione Puglia, non può esserci correlazione tra il disseccamento e Xylella, il che non significa che non ci sia Xylella, Xylella c’è, ma non c’è correlazione nella misura in cui la maggior parte degli alberi disseccati non ha questo batterio» afferma Margherita Ciervo, professoressa associata dell’Università di Foggia e ricercatrice presso l’Università di Liegi, che da dieci anni segue la questione e attraverso la pubblicazione di numerosi paper scientifici, ha dimostrato l’assenza di connessione tra batterio e disseccamento e l’avventatezza attuata dalle istituzioni politiche nell’imporre misure d’abbattimento, denunciando il catastrofismo della stampa nella definizione di un «caso Xylella».

«La maggior parte degli alberi abbattuti in questi dieci anni, non sono neanche stati testati, ma appartengono a quegli alberi posizionati nel raggio dei cinquanta metri [dagli alberi infetti] o, fino al 2021, di cento metri», afferma Margherita Ciervo.

Ciò che dovrebbe spingere ad una riflessione è il ruolo che la stampa ha avuto sull’intera questione, spesso dimostrando un forte schieramento ideologico, celando, in alcuni casi, notizie di interesse nazionale. Un caso esemplare è l’abbattimento di centinaia di ulivi, molti dei quali plurisecolari, avvenuto i primi di luglio del 2024 nella riserva naturale statale di Torre Guaceto, nel brindisino. L’eradicazione, compiuta da un privato, proprietario degli alberi, è stata giustificata proprio ricorrendo all’articolo 8 ter. della Legge 44 del 2019 (su richiamata), la quale prevede che «per un periodo di sette anni, il proprietario, il conduttore o il detentore di terreni possa estirpare, previa comunicazione alla regione, gli olivi situati nella zona infetta, con esclusione di quelli ubicati nella zona di contenimento, in deroga ad ogni disposizione vigente, anche in materia vincolistica. L’estirpazione può, inoltre, essere effettuata senza dover esperire i procedimenti di valutazione di impatto ambientale, di valutazione strategica e di valutazione di incidenza ambientale». Tuttavia, in questo caso il proprietario, trovandosi in una Riserva Naturale dello Stato, avrebbe dovuto richiedere il nulla osta, cosa che non risulta essere stata fatta. Inoltre, la Regione Puglia avrebbe stanziato un finanziamento di 1,6 milioni di euro per risarcire gli operatori professionali e i privati delle spese di eradicazioni degli alberi.

Se da un lato l’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bari (IPSP-CNR) denota come la Xylella sia la causa dell’essiccamento degli alberi d’ulivo; dall’altro il frutto del lavoro di persone esperte, accademiche, tra le quali Margherita Ciervo e Marco Scortichini, presenta un quadro decisamente più composito, nel quale le responsabilità non si riconducono esclusivamente al batterio, ma anche all’azione di funghi, all’abuso di erbicidi come il glifosato, alla ridotta biodiversità microbica dei batteri riscontrati negli alberi disseccati e alla scarsa mineralizzazione di sostanza organica nel sottosuolo, elementi che dimostrerebbero la diffusione del disseccamento a macchia di leopardo. A questi si potrebbero presumibilmente aggiungere ulteriori cause inquinanti, quali, ad esempio, l’interramento di rifiuti tossici nella provincia di Lecce.

Dove però non si è abbattuta l’eradicazione forzata degli ulivi, nel corso degli anni si è diffusa l’applicazione di diversi protocolli di cura, fra cui un metodo particolarmente efficace nella salvaguardia della produttività degli alberi, teorizzato da Marco Scortichini (che dà il nome al rispettivo protocollo) che prevede la nebulizzazione mensile sulla chioma degli alberi infetti di un fertilizzante composto da zinco, rame e acido citrico, durante il periodo primaverile e autunnale. Le ricerche dello stesso CNR, oltre alle comunità agricole che hanno attuato questo «piano di resilienza», hanno dimostrato, attraverso analisi satellitari, che le piante infette non solo si mantengono in uno stato vegetativo ottimale, ma non alterano la propria produttività.

«Ho preso a cuore la questione perché mi rendevo conto, da un lato dello stravolgimento geografico e del cambio dell’economia del territorio, e dall’altro della mancanza di logica in questo processo» mi svela la professoressa Ciervo, accennando ad una questione che è diventata oramai all’ordine del giorno in Salento, ovvero il passaggio da un’economia prettamente familiare, ad un’economia focalizzata su piano globale.

Cosa fare della tabula rasa: fotovoltaico, piantumazione o riforestazione

«Io mi ricordo che già dal 2013 si parlava della TAP» mi racconta Simone Stradiotti, giovane salentino che ha osservato fin da subito i dubbi che la popolazione manifestava sulla questione. «Tra le teorie del complotto, quella era la più famosa, avrebbero buttato questo batterio, in modo tale che i proprietari delle campagne vedessero gli ulivi morire e non chiedessero grandi risarcimenti alla TAP durante la costruzione del gasdotto transadriatico».

Quando, intorno al 2010, si dichiarò la comunanza di intenti tra Italia, Albania e Grecia, nell’ospitare l’impianto offshore del Gasdotto Trans-Adriatico, una grande parte della popolazione salentina protestò contro il passaggio del gas attraverso il mar Adriatico e le campagne salentine del nord della provincia di Lecce. Le proteste, che tentarono di impedire fisicamente gli espropri e le conseguenti eradicazioni della flora sui territori interessati dal passaggio, non riuscirono in ogni caso ad ottenere l’interruzione del progetto, che si concluse con successo nel 2020 e consta come attualmente operativo. Se queste cause, seppur molto radicate nella popolazione, siano risultate lontane da veridicità scientifiche, il risultato dell’eradicazione forzata imposta nel corso degli anni ha messo in evidenza una nuova problematica: la gestione del territorio svuotato e in molti casi abbandonato.

Le possibilità che si presentano davanti ad un territorio con grandi quantità di spazio libero a disposizione sono evidentemente numerose, ed è possibile suddividerle in tre macrocategorie, nelle quali, però, si può scorgere la presenza di fattori tra loro simili. Da un lato sono presenti i progetti che prevedono una trasformazione del territorio in un hub energetico, come nel caso dell’apposizione nei terreni desertificati di impianti di produzione di energia rinnovabile, quali parchi eolici e pannelli fotovoltaici. Inoltre, è in cantiere la proposta, di installare un ulteriore metanodotto, con il fine di collegare il TAP alla rete nazionale, attraversando le province di Lecce e Brindisi, nei pressi di Matagiola, e allacciarsi così alla linea Adriatica del gasdotto nazionale. Dietro a questo progetto, c’è l’azienda che detiene il 20% di TAP, ovvero SNAM, azienda facente parte del gruppo Eni fino al 2012.

È necessario annoverare, inoltre, i progetti di piantumazione delle cultivar Leccino e Favolosa, fortemente spinte dalle istituzioni governative attraverso incentivi e finanziamenti, ma che risultano poco compatibili con il territorio, a causa della cospicua quantità d’acqua che necessitano per la coltivazione e, da un punto di vista produttivo, a causa della possibilità di impiantare una gestione iperintensiva della coltivazione, modalità non presente per motivi storici e culturali in Salento. Del resto, questi finanziamenti sono classificati come SAD, Sussidi Ambientalmente Dannosi, dal Ministero dell’Ambiente. Il passaggio da un’agricoltura prettamente familiare ed estremamente parcellizzata, ad una coltura proiettata sul mercato globale, cambierebbe non solo la maniera di concepire l’economia territoriale, ma anche la relazione tra popolazione e territorio stesso. Si presenta quindi un’ultima proposta, ovvero l’idea di avviare un processo di riforestazione del Salento, ma, anche in questo caso, i dubbi su chi dovrà occuparsi di queste operazioni e in base a quali criteri, restano elevati.

«Si è cominciato a ragionare su come rimettere in sesto il paesaggio, anche in virtù dell’esplosione turistica del Salento» mi spiega Gustavo D’Aversa, dottorando di ricerca presso l’Università del Salento. «Quindi è cominciato un piano di riforestazione, che rappresenta un tema delicatissimo sotto vari aspetti: primo, perché gli orientamenti sono molto diversi, secondo, perché, se è fatto su larga scala, cambierà per sempre il paesaggio e terzo, perché un terreno agricolo diventerebbe terreno boschivo». Le modalità che si possono osservare si differenziano in base agli obiettivi e agli approcci utilizzati. Alcune agiscono in base a finanziamenti al terzo settore e non è escludibile che queste organizzazioni, legate ad enti quotate in borsa, possano utilizzare carbon credits, ovvero le pratiche di salvaguardia ed interesse ambientale, atte a compensare le emissioni di CO2 e gas serra. Le azioni di simili enti, spesso lontane dal coinvolgimento popolare, scatenano dei dubbi su come, ad esempio, andranno a riforestare il territorio e, nello specifico, quali varietà introdurranno nel contesto geografico. Nel caso salentino alcune di queste accedono ai territori di demanio regionale, con concessioni però fortemente limitate nel tempo, caratteristica importante se si parla di progetti come la piantumazione di aree boschive.

«Altre invece utilizzano spazi molto piccoli, un’agricoltura come quelle antiche, nelle quali si creavano corridoi di equilibrio ambientale, dove si mischiano alberi, arbusti e che rientrano nell’agroforestazione». Gustavo D’Aversa fa riferimento all’associazione senza scopo di lucro Manu Manu Riforesta, nata dalla militanza locale contro il progetto della Statale 275 Maglie-Santa Maria di Leuca, che si occupa di acquisire in dono, in comodato d’uso o in affitto, terreni abbandonati e attuare progetti di agroforestazione, attraverso i quali si vuole contrastare la desertificazione con la biodiversità, superando così definitivamente il concetto di monocoltura. Nel territorio ricevuto in comodato d’uso dall’azienda agricola Merico, ad esempio, Manu Manu Riforesta ha piantumato 64 nuove piante, tra le quali lecci, querce, rosmarino, corbezzoli e un ulivo.

Nell’ultimo decennio la regione salentina ha vissuto uno sconvolgimento che ancora oggi pesa sull’anima della popolazione locale. Numerose sono le famiglie che hanno visto nel corso degli anni, da un lato il graduale, quasi inspiegabile, disseccamento dei propri alberi, dall’altro la fredda e superficiale lontananza delle istituzioni governative. Alberi, sia chiaro, non solo destinati alla produzione d’olio, così intrinsecamente legata alla società e alla cultura di questo luogo, ma spesso simbolo di intere famiglie, che nell’ineluttabile passaggio generazionale hanno ricevuto il silenzioso assenso di questi imponenti alberi, ormai divenuti membri della famiglia.

Il senso di impotenza che queste persone hanno vissuto, ha accompagnato i tentativi, spesso disperati, di salvataggio delle piante o di raccolta delle olive. Nonostante ciò, se apparentemente non può che restare una profonda rassegnazione, l’impegno di ricercatori e ricercatrici che lavorano per fare verità attraverso la scienza, e il coraggio delle nuove generazioni, spesso ritornate dopo anni sul territorio, che vogliono avverare il sogno di vedere la propria terra viva, sostenibile e abitata, mettono in evidenza il legame indissolubile che unisce queste persone al Salento. Un legame profondo come le radici intricate di un ulivo che da secoli vive tra le terre aride incastonate fra lo Jonio e l’Adriatico.

[foto e testo di Armando Negro]

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