mercoledì 2 Ottobre 2024

Ddl 1660, una norma da stato di polizia: intervista all’avvocato Eugenio Losco

Dalla criminalizzazione di ogni forma di dissenso che esca dai binari del rassegnato corteo autorizzato dalla Questura (sempre che questo sia concesso, considerato quanto sta accadendo in vista di quelli per la Palestina), a nuove garanzie di impunità per gli agenti di polizia. Il Ddl 1660, impropriamente ribattezzato come al solito “Decreto Sicurezza”, è in realtà in tutto e per tutto un “Decreto Repressione”. Al suo interno, una fattispecie di reato nuova pensata per colpire ogni movimento che preoccupa il governo: operai, ecologisti, movimenti contro le grandi opere, contro la speculazione energetica e per il diritto alla casa. Una norma giudicata pericolosa anche dall’Unione delle Camere Penali, che ha proclamato un inusuale “stato di agitazione” degli avvocati contro la legge che è già stata approvata alla Camera e aspetta di approdare al Senato per il voto definitivo. Per spiegare ai lettori i caratteri preoccupanti di una legge che, se approvata in via definitiva, andrà ad apporre un nuovo chiodo sul diritto alla manifestazione del dissenso, L’Indipendente ha intervistato Eugenio Losco, avvocato da tempo attivo nella difesa di cause relative a proteste e movimenti sociali.

Partiamo dall’inizio, perché il ddl 1660 dovrebbe preoccupare più dei precedenti decreti sicurezza?

È un disegno di legge caratterizzato dalla volontà evidente di reprimere qualsiasi forma di lotta e di conflitto sociale, andando a colpire i vari movimenti e le lotte sociali in maniera specifica e dettagliata. C’è una norma studiata per reprimere gli eco-ambientalisti, una contro i lavoratori della logistica, una contro Ultima Generazione, una contro il movimento per la casa, una contro chi si oppone alle grandi opere, una contro i detenuti che protestano nelle carceri, e una contro gli immigrati nei centri di detenzione. Si tratta di un decreto repressivo concepito in modo organico, che costituisce quindi un salto di qualità rispetto ai precedenti decreti sicurezza.

Il decreto nella sua organicità si spinge oltre: mentre da una parte criminalizza il dissenso, dall’altra aumenta le difese dei corpi di polizia che hanno il compito di reprimere le proteste, è così?

Assolutamente. La pena per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, storicamente contestato in maniera molto vaga, viene aumentata di un terzo se commessa nei confronti di un poliziotto, senza possibilità di applicare le attenuanti generiche. La pena poi subisce un aggravio in caso di manifestazioni che contestano le grandi opere, una fattispecie pensata apposta per reprimere i movimenti che si oppongono alla TAV e al Ponte sullo Stretto. È stato poi introdotto un reato specifico di lesioni nei confronti di appartenenti alle forze dell’ordine, con pene molto gravi. Se normalmente una condanna per lesioni lievi prevede una pena bassa, se le stesse lesioni vengono inflitte a poliziotti la condanna varia da 2 a 5 anni. Se sono lesioni gravi, da 4 a 8 anni, mentre per lesioni gravissime si può arrivare a 16 anni di reclusione. A chiudere il cerchio viene poi concesso agli agenti di polizia il diritto di portare armi anche fuori servizio.

Il ddl si occupa anche di carceri e CPR, luoghi dove quest’anno si sono susseguite proteste, rivolte e suicidi. Un problema che il governo pare voler risolvere reprimendo le proteste anziché ragionando su come affrontare un problema sociale…

È esattamente così. Uno dei nuovi reati che più colpisce è sicuramente quello previsto dagli articoli 26 e 27 di questo disegno di legge, ossia il reato di rivolta in carcere, nei centri di detenzione amministrativa, nei CPR e negli hotspot. Non c’era nessun bisogno di introdurre un reato specifico di rivolta, dato che le azioni di protesta di questo tipo sono già fortemente sanzionate. È una norma bandiera, pensata a fini propagandistici, ma ciò che preoccupa di più è che all’interno di questi articoli è stato introdotto anche il reato di resistenza passiva. Un detenuto che rifiuterà di obbedire a un ordine impartito dalle autorità sarà punito come se avesse messo in atto un’azione violenta nei confronti degli agenti. La protesta passiva diventa reato di resistenza. Questo è piuttosto preoccupante, perché introduce nel nostro ordinamento una figura di reato inedita.

Su questo c’è il rischio che si torni ai regolamenti carcerari dell’epoca fascista, che imponevano un carcere fondato sulla punizione e la totale sottomissione del detenuto?

Sì, l’orientamento di questo governo sembra voler superare l’ordinamento penitenziario attuale che, quando è stato introdotto nel 1975, era all’avanguardia. Questo decreto mi sembra un esempio chiaro di tale volontà.

In che modo il ddl 1660 va a colpire i movimenti sociali?
Come dicevo, il disegno di legge è organico e prova a reprimere tutte le più forti lotte sociali degli ultimi anni. Il nuovo reato di occupazione, che prevede da 2 a 7 anni di carcere per chi occupa una casa, andando a colpire anche chi coopera con l’occupazione, appare come una norma ad hoc per colpire i militanti dei movimenti per il diritto alla casa.

La forte penalizzazione del blocco stradale, punibile con il carcere anche se attuato in forma pacifica, colpisce in maniera chirurgica una delle pratiche maggiormente utilizzate dagli operai della logistica. Il ministro Piantedosi ha dichiarato espressamente che l’introduzione di questo reato serve a impedire che le proteste dei lavoratori della logistica possano disturbare la distribuzione delle merci. Si tratta quindi di una norma che ha il duplice effetto di reprimere chi protesta e proteggere gli interessi della controparte, rappresentata dagli imprenditori, garantendo che i loro affari non siano disturbati dai blocchi operai. La soluzione del ministro ai quasi 240 scioperi di cui parla non è quella di indagare sul perché questi scioperi vengano fatti in un settore come la logistica, dove esiste un grave problema nell’applicazione dei contratti, ma di reprimere il diritto di sciopero.

Nella stessa cornice si inserisce l’aumento della pena di un terzo previsto per chi si oppone alle grandi opere definite strategiche, che mira a colpire i movimenti in difesa del territorio, come quelli contro la TAV, il Ponte, il MUOS o la speculazione energetica. Viene inoltre aumentata la possibilità di applicare i DASPO agli attivisti, impedendo loro, ad esempio, di avvicinarsi a opere di interesse strategico come ferrovie e trasporti urbani, o di partecipare alle manifestazioni.

In definitiva, queste sono tutte misure studiate in maniera metodica per colpire ogni forma di opposizione organizzata allo stato attuale delle cose. Si cerca anche il controllo totale della piazza e delle forme di protesta.

C’è poi il “terrorismo della parola”, la nuova norma che sanziona i materiali informativi scritti. Cosa implica?

Si tratta dell’introduzione del reato di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo”. È un’altra misura che dimostra il livello di repressione pervasivo nel disegno di legge. Sarà considerato reato il semplice possesso di materiale che illustri la preparazione di congegni, armi o che parli di tecniche di sabotaggio, indipendentemente dal fatto che il soggetto intenda effettivamente mettere in pratica azioni concrete. La reclusione prevista va dai due ai sei anni. Si assiste a una forte anticipazione della punizione, nel senso che si punisce una condotta che, in termini giuridici, si definisce come “pericolo astratto”, mentre finora era richiesta almeno una minima concretezza.

Sembra che la direzione sia quella di concepire la sicurezza esclusivamente in termini di proibizione e punizione, ignorando completamente l’aspetto della sicurezza sociale. In questo modo, si passa da uno stato di diritto teorico a uno stato di polizia sempre più repressivo.

C’è senza dubbio un passaggio deciso verso un maggior autoritarismo, verso una modifica “all’ungherese” del nostro sistema. Poi sul fatto che non si investa per quanto riguarda il sociale, eccetera, non è il primo governo, forse tutti i governi recenti hanno fatto così. È ovvio che la questione di sicurezza non si risolve con la repressione, ma intervenendo nel sociale dove ce n’è bisogno. Ma questo non lo fa nessuno, né a destra né a sinistra.

Possiamo leggere questo nuovo decreto come una continuazione dei precedenti decreti sicurezza, dal decreto Minniti/Orlando al Decreto Salvini e al Decreto Caivano?

Sì, c’è sicuramente una continuità, ma questo decreto ha un impatto maggiore rispetto ai precedenti. Ha molti aspetti che richiamano un’impostazione quasi di stampo fascista. Penso, ad esempio, alle leggi che colpiscono determinate categorie in modo quasi discriminatorio, come le norme contro i Rom, la nuova definizione del reato di accattonaggio con l’aumento delle pene, o la modifica dell’articolo 146, che introduce la possibilità di applicare il carcere anche alle donne incinte o con figli minori di un anno. Oppure la norma che impone l’obbligo del permesso di soggiorno per ottenere una carta SIM e quindi un cellulare, rivolta agli immigrati.

Molti stanno denunciando principi di incostituzionalità nel ddl 1660. Lei cosa ne pensa: contiene norme contrarie alla Costituzione italiana?

Sarà sicuramente una questione da approfondire, ma a mio avviso ci sono punti che sono in aperto contrasto con la Costituzione. Pensiamo, ad esempio, all’articolo 3, che sancisce il principio di uguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge: come si concilia questo con il diritto dei poliziotti non in servizio a girare armati o con le norme specifiche rivolte ad alcune categorie sociali o etniche? C’è anche un problema di proporzionalità delle pene in relazione a certi reati, che è un altro principio costituzionale. Sono tutte questioni che potranno essere sollevate, ma purtroppo richiederanno tempi lunghi. Nel nostro ordinamento non esiste la possibilità di ricorrere direttamente alla Corte Costituzionale. Sarà necessario che un giudice sollevi la questione all’interno di un procedimento penale. Ma ci vorranno anni, e nel frattempo tutto questo impianto legislativo entrerà in vigore.

[di Monica Cillerai]

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