Le emissioni di metano di 29 grandi aziende produttrici di carne e latticini, tra cui l’italiana Cremonini, eguagliano quelle delle 100 principali aziende del settore dei combustibili fossili: è quanto emerge da un nuovo rapporto dell’Ong ambientalista Greenpeace Nordic, che denuncia come tale contributo rappresenti una seria minaccia per la crisi climatica. Il tutto, secondo l’organizzazione, potrebbe essere mitigato dalla riduzione della sovrapproduzione e dell’assunzione di carne e latticini nei paesi a medio e alto reddito – dove spesso se ne consuma in eccesso – abbattendo così la temperatura media globale di 0,12°C entro il 2050. «Per tanto tempo abbiamo osservato la crescita senza freni delle grandi aziende di carne e latticini, come se il settore fosse in qualche modo esente da responsabilità verso la crisi climatica, ma non è affatto così», ha commentato Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.
Il metano (CH4) è un idrocarburo semplice ed è il principale componente del gas naturale. Viene emesso durante la decomposizione di materia organica attraverso attività agricole, durante l’estrazione e il trasporto di combustibili fossili, e in discariche. È considerato un gas serra a causa della sua capacità di intrappolare il calore nell’atmosfera, contribuendo così al riscaldamento globale: in un arco temporale di 20 anni, infatti, il suo potere di riscaldamento è 80 volte superiore della CO2. Ciò significa che, a parità di massa, il metano ha un impatto notevolmente maggiore sul riscaldamento globale a breve termine, al contrario dell’anidride carbonica che è stata correlata ai cambiamenti climatici delle ultime centinaia di milioni di anni.
Secondo il rapporto, tra il 1910 ed il 2015 si è registrato un enorme aumento della produzione e del consumo di carne e latticini, al punto che la produzione zootecnica ha rappresentato il secondo più importante fattore di aumento delle emissioni nel sistema alimentare globale negli ultimi decenni. Lo studio prosegue mostrando i diversi percorsi che l’umanità dovrebbe considerare di intraprendere tra il 2025 ed il 2050 per accelerare o rallentare il riscaldamento globale attraverso il settore della carne e dei prodotti lattiero-caseari. Visto che, attualmente, si stima che le 5 maggiori aziende produttrici di carne e latticini (JBS, Marfrig, Minerva, Cargill e Dairy Farmers of America) emettano più metano di BP, Shell, ExxonMobil, TotalEnergies e Chevron messe insieme, se si riducesse la produzione industriale per allinearci ad una dieta differente si potrebbe evitare un aumento di temperatura di 0,12°C entro il 2050 mentre, d’altra parte, se non verrà ridotto il numero di animali allevati, il settore sarebbe responsabile di un aumento di temperatura di 0,32°C entro i prossimi 26 anni. Nonostante le cifre possano sembrare irrisorie, Greenpeace aggiunge che per ogni 0,3°C di riscaldamento evitato si potrebbe ridurre l’esposizione al caldo estremo per 410 milioni di persone.
Inoltre, nel documento viene citato anche il gruppo italiano Cremonini che, tramite Inalca, risulta uno dei maggiori produttori europei di carne bovina ed il numero uno nel Belpaese. Il gruppo Cremonini controlla anche i marchi Montana, Manzotin, Fiorani e Montagna e nel 2022, secondo le stime, ha commercializzato complessivamente quasi 480 mila tonnellate di carne, per un totale di emissioni pari a 0,32 megatonnellate di metano. «Siamo spesso stati messi di fronte a una realtà nella quale sono gli allevatori o i consumatori a dover cambiare, mentre queste aziende decidono cosa gli agricoltori devono produrre, quanto devono essere pagati e cosa noi dobbiamo mangiare. Ora però sappiamo che un cambiamento del sistema è possibile. I governi devono guidare gli investimenti e le politiche per avviare il cambiamento. Abbandonando la sovrapproduzione e il consumo eccessivo di carne e latticini, sostenendo gli agricoltori e i lavoratori del settore in una giusta transizione. E così facendo, salvando milioni di vite limitando il riscaldamento globale», ha commentato Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. Infine, Greenpeace conclude aggiungendo che, per tenere alta l’attenzione sul tema, in vista del summit mondiale sul clima delle Nazioni Unite di novembre (COP29), gli attivisti cercheranno di rendere visibile, tramite fumogeni rosa, le emissioni di metano di queste aziende e di «denunciare i tentativi di greenwashing dei giganti del settore».
[di Roberto Demaio]
Gli allevamenti intensivi sono sicuramente un problema dal punto di vista del benessere animale e delle emissioni data la elevata somministrazione di mangimi concentrati a base di mais, soia, e grano vario. Le vacche (sacre) indiane, quasi la metà della popolazione bovina mondiale ( 1,5 miliardi, non 8 miliardi di H.sapiens), emettono poco poiché si alimentano di erba, poca, e sterpaglie e metabolizzano la cellulosa al contrario del sopracitato sapiens. Il problema è sempre lo stesso: lo sfruttamento economico di specie definite inferiori ( e/o di etnie..) per sostenere il turbocapitalismo. Non si scappa. Evito di fare commenti sulla “fregnaccia” dello 0,12 gradi perché basta che il Sole , volendosi sollazzare un po’, cominci a bombardarci per un paio d’ anni con qualche tempesta solare che finiamo tutti arrosto.
Le mega-aziende di allevamento sono una piaga della nostra epoca, e questo è difficile negarlo: a parte il discorso del riscaldamento globale, pur se decisamente discutibile, penso alle condizioni igieniche, di vita e ai trattamenti riservati a questi poveri animali, all’inquinamento da sostanze tossiche e velenose da tali aziende utilizzate e prodotte, all’enorme problema dell’abuso di antibiotici per massimizzare la produzione e limitare le perdite, allo scaricamento di liquami nei fiumi e nei torrenti che continua indisturbato (abito in Emilia, tocco con mano)…potrei andare avanti per un po’.
Volendo invece limitarsi al “cambiamento climatico”, e volendo dar credito a chi sostiene che è il problema maggiore, in realtà non si sentono molte voci come quella di quest’articolo che chiamano in causa il metano e gli allevamenti intensivi. Molto più comodo dare tutta la colpa alla solita CO2, che tanto ormai non piace più a nessuno.
Certo che se vi ci mettete anche voi con queste stronzate andiamo bene… Voi dite di fare giornalismo vero, ma qualcuno ha valutato il report di questa ONG, che sicuramente è di parte? Qualche scienziato ha valutato e confermato? Mah
(Chiedo scusa per la ripetiizione, ma spesso e volentieri l’opzione “Risposta” non funziona a dovere)
Le mega-aziende di allevamento sono una piaga della nostra epoca, e questo è difficile negarlo: a parte il discorso del riscaldamento globale, pur se decisamente discutibile, penso alle condizioni igieniche, di vita e ai trattamenti riservati a questi poveri animali, all’inquinamento da sostanze tossiche e velenose da tali aziende utilizzate e prodotte, all’enorme problema dell’abuso di antibiotici per massimizzare la produzione e limitare le perdite, allo scaricamento di liquami nei fiumi e nei torrenti che continua indisturbato (abito in Emilia, tocco con mano)…potrei andare avanti per un po’.
Volendo invece limitarsi al “cambiamento climatico”, e volendo dar credito a chi sostiene che è il problema maggiore, in realtà non si sentono molte voci come quella di quest’articolo che chiamano in causa il metano e gli allevamenti intensivi. Molto più comodo dare tutta la colpa alla solita CO2, che tanto ormai non piace più a nessuno.