domenica 20 Ottobre 2024

Come ci siamo abituati alla guerra totale, un concetto che per millenni non è esistito

«Noi diamo per scontato che la guerra moderna coinvolge tutti i cittadini e mobilita la maggioranza della popolazione; che essa è condotta con armamenti che vengono usati in quantità inimmaginabili, per la cui produzione si richiede la riconversione dell’intero apparato economico; che essa causa distruzioni indicibili e che trasforma profondamente la vita dei Paesi coinvolti. Tutti questi aspetti appartengono solo alle guerre del nostro secolo». Così Eric Hobsbawm introduce il tema della “guerra totale” nel suo monumentale Secolo Breve, opera con la quale lo storico tratta del periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino. Il concetto che sta dietro a queste considerazioni è piuttosto semplice: la guerra cambia nel tempo, tanto che in passato si faceva (e pensava) diversamente da come la si fa oggi; essa, lungi dall’essere un fenomeno inscritto nel DNA degli esseri umani, risulterebbe insomma essere una vera e propria istituzione eminentemente storica. In quanto tale, la guerra non sarebbe altro che una delle tante forme di risoluzione degli antagonismi tra popolazioni umane e in virtù della sua stessa natura sarebbe stata oggetto di numerosi cambiamenti.

Cos’è e come viene teorizzato il modello della guerra totale

Il quartiere di Rimal, nella città di Gaza, distrutto durante la guerra

Il fatto che oggi la guerra si risolva in un apparato totalizzante che coinvolge anche quella porzione di cittadini che non dovrebbe, almeno in linea teorica, venire coinvolta nelle questioni belliche, è quasi fuori discussione. Questa compenetrazione del tessuto sociale con il comparto bellico di un Paese si traduce in quelle atrocità di cui siamo testimoni ogni giorno e che contraddistinguono i conflitti di natura militare contemporanei. È il caso estremo oggi al centro dell’attenzione mediatica della Palestina, dove decine di migliaia di civili sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani, senza che nessuno dopo oltre sette mesi di conflitto, abbia mosso concretamente un dito per evitare la strage. Per quanto poi il genocidio in corso a Gaza non sia considerabile una vera e propria “guerra” in senso stretto, non vedendo esso contrapposti due eserciti, questo incarna plasticamente il criterio “totalizzante” della guerra contemporanea. Il sostanziale immobilismo che caratterizza le risposte dei Paesi terzi davanti all’efferatezza della guerra contemporanea non è dovuto solo a condizioni pratiche e materiali, ma si riconduce a una quesitone di natura ideale, relativa alla concezione vigente della guerra stessa: siamo abituati alla ferocia. Lo stesso Hobsbawm sottolinea come con le guerre mondiali – esempio cardine di quella che viene definita “guerra totale” – sia iniziato un processo di normalizzazione del fenomeno della guerra come aspetto della vita concreta delle società. 

Con “guerra totale” si intende quella forma di guerra in cui gli Stati coinvolti usano tutte le risorse a loro disponibili con il fine di demolire l’abilità del proprio rivale di dispiegare le proprie capacità belliche; nonostante tale fenomeno sia stato attribuito a diverse situazioni nella storia, la sua più specifica peculiarità è stata riconosciuta come propria delle guerre contemporanee: si fa qui riferimento al coinvolgimento dell’intera popolazione e dell’intera società nello stesso fenomeno della guerra. Il concetto di “guerra totale” è stato in prima battuta teorizzato dal generale e teorico militare prussiano Carl von Clausewitz nel suo trattato Della Guerra, uno dei più importanti scritti teorici sul fenomeno bellico mai pubblicati. In esso, il militare descrive quella che egli definisce come “guerra assoluta” come una guerra senza limite alcuno portata avanti per annichilire il nemico e asservirlo al proprio volere; così facendo, egli spezza per la prima volta il labile confine che separava la guerra dalla politica, principio esemplificato dalla celebre frase: «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Con Clausewitz, insomma, la concezione della guerra diventa quella di un fenomeno che coinvolge tutta la società.

Il modello della guerra totale nella sua evoluzione materiale

La città tedesca di Dresda rasa al suolo dai bombardieri di Regno Unito e Usa. In soli tre giorni di bombardamenti (tra il 13 e il 15 febbraio 1944) le persone uccise furono un numero compreso tra 25.000 e 40.000

Nonostante il trattato Della Guerra sia stato concepito nella prima metà dell’Ottocento, la prima fattuale testimonianza del concetto di “guerra totale” è arrivata solo con la Prima guerra mondiale. Essa, tuttavia, è stata resa possibile proprio dagli sviluppi tecnologici e industriali dei secoli precedenti, che hanno vissuto una spinta propulsoria con la rivoluzione industriale. Anche Hobsbawm, nelle sue opere relative al “Lungo Ottocento” sottolinea come con la rivoluzione industriale «l’economia divenne, per così dire, astronomica». Con essa, insomma, «vennero spezzate le catene che imprigionavano le capacità produttive delle società umane», portando a una esponenziale crescita della ricchezza e della produzione degli Stati. È con tale «corsa al primato» produttivo che l’industrializzazione si estese anche ai militari portando per la prima volta a una riconsiderazione degli eserciti che iniziarono a ricoprire «una funzione prevalentemente civile». Secondo Hobsbawm, insomma, tra la rivoluzione industriale e la fine del XIX secolo, civile e militare si fusero insieme, coadiuvati dall’ingente e repentino sviluppo tecnologico e produttivo. È così che si arrivò in breve tempo a questo innovativo modo di far guerra che interessa non solo la sfera militare, ma l’intero comparto civile e sociale.

Con l’avvento della Prima guerra mondiale avvenne la definitiva trasformazione della guerra in “guerra totale”. Gli esempi pratici e concreti di ciò che si intende con tale concetto sono molteplici e vanno dalla creazione di una vera e propria filiera di produzione bellica alla conversione delle industrie civili in industrie di guerra, all’estensione della ricerca scientifica anche alla sfera militare, ma anche alla mobilitazione dei civili e all’introduzione della leva militare. Più in generale, secondo molti storici, il modello della “guerra totale” porta alla istituzione di una vera e propria “economia di guerra”, ossia, per usare una definizione di Philippe Le Billon, di un «sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse per sostenere la violenza» in modo da generare profitto da essa. Uno degli aspetti che più contraddistingue la guerra contemporanea è infatti quello della sua strettissima connessione con la sfera economica. 

La guerra oggi genera profitto perché è un aspetto centrale della stessa economia. Ed è forse in questo più che in tutto il resto che si può rilevare la sua compenetrazione con la società civile. Anche in passato la guerra generava profitto, ma in maniera diversa. Essa non era infatti retta da un intero sistema economico e produttivo, ma “esternalizzata”, e “individualizzata”. Nel Medioevo, per esempio, non è raro il ricorso a milizie specializzate da parte degli Stati, tanto che interi popoli hanno accresciuto la propria influenza proprio prestando servizio militare per conto di terzi. È il caso conclamato dei normanni, che finirono per dominare l’intera Sicilia e unificare gran parte dell’Italia meridionale sotto la guida degli Altavilla, i quali divennero una delle dinastie più note e importanti della storia nobiliare europea. La guerra, inoltre, non coinvolgeva in maniera diretta i civili ed era condotta solo da chi aveva il denaro per acquistare l’equipaggiamento necessario, perché nonostante essa costasse meno allo Stato, era più onerosa per il singolo individuo. Lo stesso scopo della guerra è mutato col tempo, arrivando a giustificare il sorgere del modello della guerra totale: se, infatti, in passato le guerre si conducevano per questioni territoriali o divergenze in materia dinastica, oggi a essere contrapposti sono interi sistemi sociali ed economici, che finiscono per assorbire l’intera popolazione.

Il modello della guerra totale nella sua evoluzione ideale

Cittadini Palestinesi cercano sopravvissuti dopo un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Rafah

La differenza che intercorre tra il passato e l’odierno modo di fare guerra riflette una analoga differenza nella stessa concezione del fenomeno bellico e nelle riflessioni in materia. Sebbene in passato la guerra fosse infatti meno formalmente istituzionalizzata, essa, forse paradossalmente, non penetrando tanto profondamente nella società civile, seguiva con maggiore rigore un certo codice morale ed etico, che costituiva il cosiddetto “galateo della guerra”. La riflessione sulla guerra e sulle problematiche morali che sorgono in seno ai conflitti bellici è millenaria, ma forse uno dei testi più importanti a riguardo è il De iure belli di Francisco de Vitoria. Qui il filosofo e teologo domenicano pone quelle che vengono universalmente riconosciute come le basi del diritto internazionale. Nello specifico, de Vitoria riconosce due principi fondamentali sui quali deve ruotare qualsiasi campagna bellica: il principio di distinzione e quello di proporzionalità. Il primo determina che la guerra deve venire limitata a chi la guerra la fa; il principio di distinzione, insomma, sancisce che i belligeranti possono e devono prendere di mira solo ed esclusivamente gli altri belligeranti, lasciando fuori dai conflitti i civili. Il principio di proporzionalità, invece, sostiene che la risposta di un Paese deve essere proporzionata all’offesa ricevuta. Un Paese non potrebbe insomma rispondere a un bombardamento con droni sterminando un’intera popolazione.

Viene da sé che questi principi postulati dalle riflessioni di filosofi e teologi non solo non erano vincolanti, ma neanche rispettati in tutti i casi. Ciò che differenzia il passato dal presente non è tanto la applicazione effettiva dei principi di proporzionalità e di distinzione, quanto più l’esistenza di un vero e proprio codice interiorizzato dalle società. Questa distinzione poggia in ultima istanza sui differenti rapporti che le popolazioni intere avevano con la guerra rispetto a oggi: immaginare lo sterminio di un intero popolo o anche solo di decine di migliaia di persone che nulla avevano a che fare con la guerra era, per le società del passato, assolutamente inconcepibile. Ne abbiamo parlato con Franco Cardini, storico e medievista tra i più importanti della storia del nostro Paese. Come ci spiega Cardini, «fin dalle età più arcaiche, la guerra si è basata sul principio per cui essa viene fatta dai combattenti». Accanto a essi, si sono sempre trovati «coloro che la guerra la subiscono», e intervenire sul rapporto tra le due parti è sempre stato compito delle istituzioni. Durante le guerre, insomma, c’è sempre stata «una divisione netta tra il combattente e il non combattente, che si basa sul principio che ognuno ha i propri diritti: il primo diritto del non combattente è non combattere». 

La guerra, però, inevitabilmente, «si combatteva nel territorio, e in quello stesso territorio si trovavano tanto i combattenti quanto i non combattenti», così come i campi coltivati, le risorse, le case… è per colmare questa sostanziale contraddizione che sorsero le “regole della guerra”. Questo sistema venne superato «con la legittimazione della guerra totale». Secondo Cardini, questa giustificazione nacque, a livello ideale, quando le guerre smisero di essere territoriali e dinastiche (come lo erano state fino al ’700) e diventarono, con la Rivoluzione francese, «principio di modificazione della società», «guerre per la libertà», ovvero rivoluzioni. Con le guerre civili di fine Settecento, le fazioni che si opponevano nella maggior parte dei conflitti bellici divennero due: il popolo che insorgeva e quello che non lo faceva. Civile e bellico si mischiarono anche dal punto di vista ideale, perché ogni cittadino finì per diventare «un combattente in potenza». Anche oggi, nonostante non sempre si tratti di rivoluzioni, la situazione risulta la stessa: secondo Cardini, a essere contrapposte sono infatti sempre due visioni del mondo, due diversi modelli di società e per tale motivo chiunque faccia parte di uno dei due diventa un legittimo bersaglio idealmente giustificato della guerra totale.

Altri rapporti con la guerra: la guerra rituale

L’evoluzione della guerra nelle sue forme materiali è accompagnata da una evoluzione delle riflessioni sulla guerra stessa, le quali insieme testimoniano un cambiamento nella nostra concezione della guerra. Mutando insomma il sistema produttivo, il modello economico, e la riflessione sulla guerra, muta il nostro intero rapporto con essa. È in questo che risiede quel particolare statuto di “istituzionalità” delle questioni belliche. In tal senso, il nostro modo di fare guerra non sarebbe altro che il risultato di una serie di fattori materiali e ideali, che uniti sfociano nella nostra peculiare forma di risoluzione degli antagonismi. La guerra intesa come istituzione umana, infatti, troverebbe la sua primordiale ragion d’essere proprio nel suo essere uno strumento di scioglimento dei conflitti, al di là poi di quale sia la loro matrice (economica, ideale o religiosa). 

A testimonianza di ciò arriverebbero varie teorie di natura antropologica, le quali osservano come, in certe società preistoriche, il rapporto degli uomini con la guerra aveva un carattere di natura sostanzialmente rituale. Oggi stesso, osserva l’antropologia, esisterebbero società tribali che testimonierebbero un rapporto ritualizzato con la guerra che non intende sfociare nella violenza gratuita, ma solo ricoprire in forma istituzionalizzata la funzione di risolvere le conflittualità esterne. Uno degli esempi più noti di “guerra rituale” è la cosiddetta “guerra dei fiori” che si compiva tra gli aztechi. La guerra dei fiori era un modello di guerra sacrale condotto dagli aztechi in cui due fazioni si incontravano in una data e un luogo prestabilito per combattere una battaglia, nella quale era fondamentale superare il proprio nemico in abilità. Sebbene le teorie dietro alla guerra dei fiori siano molteplici, tutti gli antropologi sono concordi nell’affermare che essa coincidesse con conflitti a bassa intensità e con poche vittime e dotati di pratiche di carattere eminentemente ritualizzato: la maggior parte dei morti, per esempio, non era uccisa in battaglia, ma sacrificata. Per quanto agli occhi di un occidentale possa apparire macabro, la guerra dei fiori risulta nelle sue modalità una chiara testimonianza di come quando si tratta di conflitti bellici ciò che muta tra una società e l’altra è il suo stesso rapporto con la guerra.

L’evoluzione della guerra nei suoi obiettivi, nelle sue capacità tecnico-materiali, nella sua dimensione ideale, nonché i tanti possibili esempi di guerra rituale come quello della guerra dei fiori puntano tutte verso un’unica possibile spiegazione: che sia o non sia inevitabile, la guerra è un’istituzione e il modo di farla è cambiato molto nella storia.

[di Dario Lucisano]

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

Articoli correlati

2 Commenti

  1. Un altro aspetto fondamentale delle guerre del ventisimo secolo e anche del ventunesimo è quanto i popoli della nazioni contrapposte siano favorevoli o meno ad andare in guerra, o meglio coloro che dichiarano guerra lo hanno mai chiesto ai rispettivi popoli? Ad esempio durante la seconda guerra mondiale quanti Italiani, tedeschi, inglesi ecc. Sarebbero stati disposti ad andare in guerra se non fossero stati obbligati?

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria