Malgrado qualche luce tra le ombre, si è conclusa in un nulla di fatto la Conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (COP16), svoltasi a Cali, in Colombia. Al termine degli incontri, i Paesi non hanno trovato l’atteso accordo su come mettere a disposizione le risorse finanziarie per il Global Biodiversity Framework Fund (GBF), il fondo creato appositamente per arrestare la perdita di biodiversità nelle varie aree del mondo, invertendo la tendenza alla decrescita. Due anni fa, a Montreal, gli Stati si erano impegnati a mobilitare un minimo di 200 miliardi all’anno entro il 2030 e di accrescere i finanziamenti verso i Paesi in via di sviluppo, ma gli obiettivi fissati sembrano ancora un miraggio. «Un pessimo segnale in vista della conferenza sul clima, la COP29, che si apre a Baku, in Azerbaijan, il prossimo 11 novembre», ha commentato l’Ente Nazionale Protezione Animali (ENPA), dopo quello che tutte le organizzazione attive nella lotta per l’ambiente ritengono essere un pericoloso dietrofront degli Stati in materia di tutela della biodiversità.
Gli incontri della COP16 dovevano terminare l’1 novembre, ma secondo le poche testimonianze di giornalisti presenti sul posto, sarebbero andati avanti per oltre 12 ore, durante l’intera notte, e sarebbero finiti perché alcuni degli interlocutori presenti, impossibilitati a ritardare il loro volo, sarebbero stati costretti a lasciare il luogo per tornare in patria. Il motivo per cui i lavori si sarebbero protratti tanto a lungo risiede in quello stesso «fallimento» denunciato da numerose organizzazioni ambientaliste: il mancato raggiungimento di un accordo relativo ai finanziamenti. Era questo un tema di fondamentale importanza, che consisteva nel cercare un modo per mettere a disposizione degli Stati le risorse finanziarie per il GBF e colmare il gap totale di finanziamenti necessari per raggiungere gli obiettivi primari fissati dagli ultimi incontri del 2022. Questi ruotano attorno a 24 punti cardine da raggiungere entro il 2030, con lo scopo ultimo di arrestare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2050. Per raggiungerli, l’accordo del 2022 prevede di aumentare la spesa annuale a 200 miliardi di dollari, mentre i Paesi sviluppati si erano impegnati a fornire 30 miliardi di dollari entro il 2030. A oggi, secondo il WWF, sono il fondo conta poco più di 400 milioni di dollari. In sintesi, al termine degli incontri, non è stato chiarito dove e da chi ottenere le risorse necessarie per finanziare le politiche di sostegno alla biodiversità.
Nonostante la sostanziale fumata nera, la COP16 ha raggiunto qualche provvedimento significativo: il più importante è certamente la nascita del Cali Fund, un fondo che ha lo scopo di ripartire in maniera equa i benefici che derivano dall’utilizzo di risorse genetiche legate alla biodiversità, permettendo anche alle popolazioni indigene di partecipare alle decisioni della Convenzione sulla Diversità Biologica. Di preciso, il 50% del fondo sarà destinato alle popolazioni indigene e alle comunità locali, tramite la mediazione dei governi statali. Va comunque sottolineato che non è tutto oro ciò che luccica: molti dei dettagli relativi all’erogazione dei fondi non sono infatti ancora stati definiti, e, in generale, la partecipazione alla piattaforma sembra essere priva di vincoli e fondata esclusivamente su base volontaria. È ancora troppo presto per comprendere se il Fondo Cali segnerà davvero una svolta nel riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene, ma diversi elementi suggeriscono che si sarebbe potuto fare molto di più. Sono poi stati fatti passi avanti in materia di identificazione e conservazione delle aree marine, ma anche in tal caso alcune associazioni, prima fra tutte Legambiente, sottolineano che «non mancano le criticità», tra cui «il fatto che non ci si può accontentare di aree identificate sulla carta».
Secondo molti, la COP16 non si sarebbe limitata a finire in un sonoro fallimento, ma segnerebbe una decisa battuta di arresto – se non addirittura una marcia indietro – verso gli obiettivi di tutela della biodiversità e di difesa dell’ambiente precedentemente fissati. In quest’ottica, i mancati risultati della COP16 rischierebbero di avere una eco negativa sull’ormai sempre più prossima COP29, la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che si terrà a Baku, in Azerbaijan, a partire dall’11 novembre. A confermare le preoccupazioni dei gruppi per l’ambiente è la stessa località in cui si svolgeranno gli incontri, dal carico simbolico fortemente rilevante: la Conferenza di Baku segue infatti quella di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, e segna così la seconda COP di fila che, ironicamente, trova sede in uno dei primi 25 produttori di petrolio al mondo.
[di Dario Lucisano]