martedì 5 Novembre 2024

Il lungo autunno dell’impero americano: ritratto di un paese in declino

Mancano ormai pochissime ore per avere i risultati delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti e tutto il mondo, o almeno così riportano i giornali, è stato con il fiato sospeso in attesa di conoscerne l’esito. Trump o Harris: ecco la domanda che ha infiammato i dibattiti. Una domanda che rivela molto più della sua risposta. Ancora oggi sembra che gli Stati Uniti continuino a esercitare un primato sull’economia e sulla geopolitica mondiale. Sarebbe interessante domandarsi come e perché e fino a che punto siamo disposti a riconoscere nel governo a stelle e strisce la nostra guida, ma è ben più interessante domandarsi se e come gli Stati Uniti esercitino una supremazia mondiale. E se potranno continuare a farlo anche in futuro. Il ruolo degli Stati Uniti come guida nella leadership mondiale è davvero indiscusso? O qualcosa sta cambiando?

Ma per comprendere ciò è necessario far luce sulla storia di questo paese e in particolare sulla sua politica estera. Un desiderio di egemonia globale a Washington si affermò soltanto a partire dal 1945. Con lo sbarco in Normandia e la distruzione di Hiroshima e di Nagasaki, la supremazia militare degli Usa parve indiscussa. Fu allora che il governo di Washington si attribuì la “missione” di garantire la pace nel mondo e di esportare la pace e la democrazia, a suon di bombe certo. Per fare ciò Washington si è sempre adoperata per mantenere la propria superiorità militare, basti pensare che la spesa militare negli USA è costantemente cresciuta. L’idea alla base della politica estera degli ultimi settant’anni è molto semplice: affinchè il mondo sia sicuro e in pace è necessario che prevalga la potenza militare statunitense. Ed è altrettanto necessario che l’intero globo riconosca negli Stati Uniti la sua guida.

Nube atomica ripresa dall’«Enola Gay» su Hiroshima il giorno dell’esplosione (6 Agosto 1945)

Quest’idea trovò la sua giustificazione filosofica in un interessantissimo saggio pubblicato dal politologo statunitense Francis Fukuyama nel 1992: The end of History and The last man, tradotto in italiano come «La fine della storia e l’ultimo uomo». La tesi avanzata da Fukuyama è che la storia umana ha raggiunto il suo culmine con le attuali democrazie liberali. La società del XX secolo ha finalmente completato il suo processo di evoluzione sociale, economica e politica fino a giungere alla sua massima e più perfetta realizzazione. Secondo Fukuyama viviamo nel “migliore dei mondi possibili”. Non esiste modello migliore del liberalismo democratico. L’uomo ha raggiunto un tale livello di perfezionamento che addirittura la “storia” si è conclusa. Non ci saranno più autentici cambiamenti, autentici stravolgimenti della società umana che si è ormai assestata nella sua forma ideale. In poche parole: la fine della storia.

Naturalmente questa tesi è stata ampiamente smentita, sia perché la storia umana non si è affatto arrestata, sia perché, come testimoniano le innumerevoli crisi che hanno sconvolto il mondo occidentale dopo il 1992, la società in cui viviamo non è affatto ideale. Il progresso tecnologico e industriale ha migliorato le condizioni di vita ma al tempo stesso ha amplificato i divari sociali. Ha provocato un distanziamento e una disgregazione delle comunità in tante piccole e sempre più isolate particelle. Eppure la tesi di Fukuyama sintetizza, in chiave filosofica e sociologica, l’agenda politica degli Usa. Washington ha tentato in tutti i modi d’imporsi come indiscusso leader mondiale, ma sul fatto che vi sia davvero riuscito ci sono forti dubbi.

Dal fallimento della guerra in Vietnam fino alla disastrosa guerra in Iran all’altrettanto disastrosa guerra in Afghanistan, terminata con la precipitosa fuga da Kabul dell’agosto 2021: negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno collezionato un fallimento dietro l’altro. L’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato l’ennesimo banco di prova per testare una politica estera a dir poco fallimentare. 

Washington ha investito ingenti somme di denaro nella guerra russo-ucraina, e ha spinto i membri della NATO a seguire le sue orme. Eppure nonostante il grande dispiegamento di risorse se c’è una cosa che tale guerra ha rivelato è che l’influenza degli Stati Uniti non fa che diminuire di anno in anno. Le sanzioni contro la Russia volute da Washington non solo non hanno realmente impattato l’economia russa, ma nessuno dei Paesi non alleati vi ha aderito. L’amministrazione Biden ha cercato in tutti i modi di far tornare in auge l’idea che gli Stati Uniti, a guida dell’Occidente, rappresentino l’unico faro in difesa della democrazia. Queste ad esempio furono le parole pronunciate da Biden: «Adesso è l’ora: è il nostro momento di responsabilità, la nostra prova di risolutezza e coscienza della storia… Così salveremo la democrazia».

I soldati statunitensi si preparano per la prossima missione alla Forward Operating Base Bostick in Afghanistan [30 marzo 2010]
Retorica che oggi fatica sempre più a far presa. Per Andrew Bacevich, professore di Storia e relazioni internazionali alla Boston University, questo mandato missionario che gli Usa si sono auto attribuiti non soltanto pecca di arroganza ma è anche ciò che ha fatto deragliare il paese negli ultimi decenni.

Anche dal punto di vista economico il primato degli Stati Uniti non è più indiscusso. L’economia cinese è già di un quarto più grande di quella USA. I dati della Banca Mondiale  confermano una verità che gli Stati Uniti preferirebbero non ammettere: l’economia mondiale, un tempo dominata dagli Stati Uniti, ormai è dominata da altri attori. Nel 1994 dai Paesi del G7 veniva il 45,3% del PIL, oggi tale percentuale è scesa al 29%, mentre cresce sempre più l’economia di paesi come Brasile, Russia, India, Cina, Arabia Saudita.

Perfino l’egemonia del dollaro sembra avere i giorni contati. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Vedant Patel ha criticato il progetto di creare una valuta globale alternativa al dollaro: «Minare il ruolo del dollaro e sviluppare alternative allo Swift è una minaccia diretta alla democrazia nel mondo. Gli Stati Uniti, ovviamente, non possono permettere che ciò accada». Al solito il governo americano lega il successo, monetario in questo caso, della propria nazione al mantenimento dell’ordine e della democrazia nel mondo. Parole tuttavia, che come quelle di Biden per la Russia, restano sospese nell’aria, e non hanno il reale potere di arrestare il progetto di una valuta mondiale alternativa al dollaro. Washington non pare disposta ad ammettere e ad accettare questa nuova realtà che sta prendendo piede, restando ancorata a un sogno di leadership mondiale che sembra appartenere sempre più al passato.

Se gli Stati Uniti sembrano aver imboccato una parabola discendente, resta in sospeso la domanda su come sceglierà di reagire l’Europa a tale declino. Cosa orienterà le nostre scelte in futuro? Troveremo un altro stato da prendere come “modello” e guida? L’agenda politica europea potrà emanciparsi e diventare finalmente indipendente o continuerà ad avere bisogno di un altro tutore morale al quale appoggiarsi e dal quale dipendere? E le singole nazioni come sceglieranno di comportarsi? Ma soprattutto: il fallimento del grande sogno americano di dominio globale, quali interrogativi dovrebbe suscitarci? Può spingerci a rimettere in discussione la nostra idea di democrazia e società ideale? La storia, a dispetto delle tesi utopistiche di Fukuyama, è ancora tutta da scrivere.

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

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