In un momento storico particolarmente devoto alla velocità, alla voracità e all’impermanenza, qualcosa che dura a lungo è una rarità. Qualsiasi cosa, dalle relazioni al lavoro, dalla lavatrice fino ad un paio di jeans: tutto sembra disfarsi rapidamente, pronto ad essere sostituito con la variante più nuova, più bella e in linea con le tendenze. Belli i tempi in cui i cappotti duravano una vita e si tramandavano di generazione in generazione, portando con sé qualità e ricordi, vestendo la vita delle persone per anni. Quando le cose erano progettate e studiate con pazienza, realizzate con minuziosa attenzione ad ogni singolo dettaglio affinché potessero resistere al tempo e all’usura quotidiana. Una volta, l’intenzione era diversa.
Oggi l’obiettivo è produrre le cose affinché durino il minimo indispensabile, quel che basta per poi far sostituire rapidamente l’oggetto o il capo in questione. La chiamano obsolescenza programmata, ma sarebbe più opportuno definirla «truffa premeditata ai danni del consumatore». Latouche l’ha identificata come «uno dei pilastri della società dei consumi» e, di fatto, meno le cose durano, più rapidamente vengono sostituite, andando ad alimentare il sistema e ad arricchire le imprese. La durabilità, dunque, sembra una qualità trascurabile e della quale si possa fare a meno, eppure ultimamente è stata sventolata come bandiera per dimostrare l’impegno verso la sostenibilità di svariate aziende. Di fast fashion.
La durabilità nella moda
Su un piano puramente fisico, un capo di abbigliamento è durevole se rimane funzionale e indossabile senza richiedere troppa manutenzione o riparazione, quando affronta le sfide quotidiane durante il lavaggio e l’usura nel corso della sua vita. Gli indumenti con elevata resistenza fisica rimangono funzionali e indossabili per lungo tempo; ciò dipende da fattori come la costruzione del capo (resistenza delle cuciture, rifiniture, ecc), le prestazioni funzionali (se è fatto in maniera adeguata per il suo uso finale; es. un jeans o una giacca a vento hanno funzioni differenti), la composizione del tessuto, la stabilità dell’articolo e la resistenza allo sbiadimento o alla perdita di colore (relativa alle tecniche di tintura e bilanciamento delle sostanze chimiche presenti nei colori tessili). Quando si parla di moda, però, entra in ballo anche un altro principio, relativo alla durabilità emotiva, quella legata all’esperienza personale e alla percezione che abbiamo di quel capo/accessorio. Si parla quindi di stile, di comfort e di come ci fa sentire, di rilevanza, di essere “in linea” con le tendenze o “fuori” (una linea di demarcazione che miete ancora vittime, di tutte le età). Un po’ perché i capi si rovinano prima, un po’ perché la creazione di bisogni e di nuovi imperdibili must have ci fa sentire fuori luogo, le cose nell’armadio durano sempre meno. In un’ottica di sostenibilità e di circolarità, mantenere in vita i capi più a lungo, curandoli come si deve e riparandoli al bisogno, aiuterebbe tantissimo.
Estendere la vita degli abiti di nove mesi in più riduce l’impronta di carbonio, di rifiuti e di acqua fino al 30%, così da avere un impatto minore sull’ambiente. Tornare a fare le cose bene, “come una volta”, dovrebbe essere un imperativo per tutte le aziende di moda che si definiscono impegnate per la sostenibilità del settore. Tutte, da quelle del lusso a quelle di fast fashion.
Lo studio di Primark per sfatare il mito secondo cui il prezzo è sinonimo di qualità e durata
Che il prezzo non sia una variabile che va di pari passo con la qualità è cosa abbastanza nota, tanto più quando si parla di marchi di lusso (che hanno comunque gli stessi problemi del pronto moda, sia per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro che quando si parla di materiali e rifiniture). Eppure lascia perplessi la dichiarazione del colosso fast fashion Primark per introdurre il suo ultimo studio sulla durabilità e secondo cui «La durata non dovrebbe essere un lusso, è una necessità». L’obiettivo della ricerca è dimostrare che è possibile creare una moda conveniente che duri, sfatando il mito secondo cui il prezzo equivale alla qualità: anche le magliette da cinque euro possono durare quanto, o più a lungo, delle loro costose controparti!
Il Primark Durability Framework è l’ultima ricerca del colosso britannico fatta per stabilire uno standard per indumenti più durevoli, dimostrando che anche la moda “conveniente” può resistere alla prova del tempo. Questo studio prende in considerazione due test, uno di lavaggio esteso e uno di qualità fisica, con tre livelli aggiuntivi sotto ogni pilastro che si basano sul suo livello di conformità minima esistente: fondamentale, progressivo e ambizioso. E le ambizioni, effettivamente, non mancano. Gli obiettivi prefissati entro il 2030 riguardano sia l’incremento della durabilità di ogni singolo capo sia il loro essere progettati fin dall’inizio per essere riciclabili (cosa che al momento non sono) e pure l’inserimento di fibre riciclate nei loro tessuti. Ma gli obiettivi si estendono anche al pianeta, promettendo una riduzione delle emissioni di carbonio, e alle persone, «proteggeremo e miglioreremo i mezzi di sussistenza e la resilienza delle persone che realizzano i nostri vestiti» (altra cosa che attualmente non sussiste).
In concreto i test hanno analizzato le prestazioni di alcune categorie di indumenti (jeans, t-shirt e calzini) a seguito dei vari lavaggi: dai 5, requisito di conformità minima dopo il quale il capo riceve l’ok per essere messo sul mercato (abbastanza scarso come standard, cinque lavaggi di un paio di calzini si fanno in un mese e mezzo a dir tanto), fino ai 45 aspirazionali (che facendo una media di un lavaggio a settimana si copre a malapena un anno di vita). La strada è lunga e contiene larghi margini di miglioramento, ma quello che il report ci tiene a mettere in evidenza è che delle 33 magliette testate, di vari marchi e dai prezzi variabili (tra i 5 ed i 150 euro), i dati hanno mostrato che il prezzo non prevede quanto sarà durevole. Pagare il doppio per una maglietta non significa che durerà il doppio.
Questo chi lavora nel settore lo sa già, essendo i capi dei marchi di lusso spesso prodotti nelle stesse aziende e con gli stessi materiali di chi cuce per il fast fashion. Dunque? Lasciate ogni speranza, o voi che comprate, perché allo stato attuale nulla sembra essere progettato per durare a lungo. A meno che non andiate a curiosare nella “Terra di mezzo”.
[di Marina Savarese]