Non finiscono mai i processi sul più grande depistaggio della storia repubblicana, quello sulle indagini in merito alla strage di via d’Amelio. La Procura di Caltanissetta ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per quattro poliziotti, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli, accusati di aver reso false dichiarazioni in occasione delle loro deposizioni come testimoni al processo che ha visto alla sbarra altri tre poliziotti – a loro volta accusati di calunnia aggravata e scampati alle condanne per l’intervento della prescrizione in appello – per il depistaggio delle inchieste sull’omicidio Borsellino. Tutti e sette facevano parte della squadra “Falcone-Borsellino”, capitanata dal questore Arnaldo La Barbera, considerato dalla sentenza definitiva al processo Borsellino-Quater come il perno del depistaggio. Lo sviamento delle indagini è stato segnato dal furto dell’Agenda Rossa del giudice Borsellino da mani istituzionali nelle ore successive al massacro, nonché dall’“indottrinamento” del finto pentito Vincenzo Scarantino, il quale si autoaccusò falsamente di essere l’autore materiale dell’eccidio, ma che quattordici anni dopo venne smentito dal vero responsabile, il mafioso Gaspare Spatuzza.
«Questo è un processo su false dichiarazioni e reticenze», ha affermato al termine dell’udienza preliminare il pm Bonaccorso chiedendo il rinvio a giudizio dei quattro poliziotti della Squadra mobile di Palermo, le quali, «mascherate da “non ricordo”, si riferiscono a momenti scuri dell’attività investigativa del Gruppo “Falcone-Borsellino” che, secondo la tesi accusatoria, rappresentano dei momenti fondamentali nell’attività di inquinamento probatorio». Vi sarebbe, infatti, «una proporzionalità diretta tra i non ricordo», ha aggiunto Bonaccorso, secondo cui è andato in scena nel tempo un «atteggiamento di malafede dei testimoni al Borsellino quater e al processo depistaggio». «Questo perché – ha aggiunto il pm – c’è la percezione di muoversi in un campo minato dove una risposta sbagliata può avere conseguenze devastanti». Lo spartiacque della vicenda è stato inquadrato dalla Procura proprio nell’inizio della collaborazione con la giustizia del mafioso Gaspare Spatuzza, il quale, dal 2008, sconfessò la versione offerta da Scarantino e di chi lo aveva imbeccato. «Noi abbiamo un prima e dopo, un avanti Spatuzza e dopo Spatuzza. Come un avanti Cristo e dopo Cristo – ha detto Bonaccorso – Abbiamo un processo Borsellino uno, bis e ter prima di Spatuzza e dopo Spatuzza abbiamo il processo Borsellino quater e il depistaggio. Se andiamo ad esaminare le dichiarazioni dei poliziotti nei primi tre tronconi, quando ancora non si era il smantellato il castello di menzogne, abbiamo dei testimoni tranquilli e sereni che rendono dichiarazioni che dopo scopriremo essere totalmente false». Lo scorso giugno, nel processo parallelo che vede alla sbarra gli altri tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo per il depistaggio, la Corte d’Appello di Caltanissetta aveva dichiarato prescritto il reato di calunnia, essendo caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra.
A ogni modo, questa volta in sede processuale sono stati tirati in ballo direttamente i vertici dello Stato. Infatti, accogliendo le richieste degli avvocati di varie parti civili, a inizio ottobre il giudice dell’udienza preliminare David Salvucci ha citato la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno quali responsabili civili. In sostanza, dunque, sono state messe alla sbarra anche le istituzioni, che avrebbero coperto gli autori del depistaggio (o comunque non avrebbero vigilato adeguatamente sulle loro condotte). Ove i poliziotti a processo incorreranno in condanne, a rispondere saranno quindi anche il ministero dell’Interno, da cui dipende la Polizia, e la presidenza del Consiglio dei ministri, da cui dipendono invece i servizi segreti. Sulle decisioni del Gip non mancano, però, alcuni punti di non ritorno. Infatti, a differenza dei figli di Paolo Borsellino, il fratello Salvatore – fondatore del Movimento delle Agende Rosse – e i familiari degli agenti di scorta rimasti uccisi in Via D’Amelio, non sono stati ammessi come parte civile. Ufficialmente, come scritto nell’ordinanza, per «difetto dei requisiti». Non è un mistero che, in merito alla lettura dei retroscena della strage, siano emerse negli ultimi anni incolmabili divergenze tra la parte della famiglia Borsellino rappresentata dai figli del giudice e quella rappresentata dal fratello.
[di Stefano Baudino]
La famosa “cupola”…
La mia convinzione che, a quel tempo, dietro c’era la mano dei paladini dello Stato non me l’ha tolta nessuno. Oggi la conferma
È evidente che il terrorismo mafioso ha infiltrazioni nelle istituzioni. Dobbiamo essere contenti di non avere come premier un mediorientale abbastanza conosciuto altrimenti per estirpare il cancro bombarderebbe a tappeto tutta la penisola