Non si trattava di situazioni «eccezionali ed episodiche», ma di «una prassi fuorviante improntata alla violenza». Così i giudici del tribunale del Riesame di Torino hanno definito le «crudeli, brutali e degradanti» condotte della polizia penitenziaria sui detenuti del carcere di Cuneo, nell’ambito di un’inchiesta, riferita al periodo compreso tra il 2021 e il 2023, che coinvolge 33 indagati. Il tribunale ha confermato la sospensione dal servizio, rispettivamente per 10 e 12 mesi, di due agenti di polizia penitenziaria accusati di ripetute violenze. Dalle indagini emerge che i detenuti venivano sistematicamente picchiati, umiliati e gettati in isolamento senza che la struttura prendesse alcuna misura disciplinare nei confronti dei responsabili. Si è inoltre evidenziato che uno degli indagati, l’ispettore Giovanni Viviani, «sia stato addirittura promosso, dopo i fatti, al grado di vice comandante della polizia penitenziaria».
Il Tribunale del Riesame non ha dubbi: il reato contestato dalla Procura, quello di tortura, sussiste. I giudici hanno spiegato che le condotte perpetrate dagli agenti all’interno della casa circondariale piemontese sarebbero state «frutto non già di una situazione eccezionale ed episodica, ma conseguenza di una prassi fuorviante improntata alla violenza» e «tenute in spregio ai principi costituzionali e che devono informare l’operato degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, funzione altamente delicata, in cui le funzioni di custodia devono accompagnarsi a doti di umanità e rispetto per chi è privato della libertà personale». Nello specifico, l’inchiesta si è focalizzata sulle violenze subite da un gruppo di detenuti, nel quale figuravano numerose persone di nazionalità pakistana, che sarebbero sfociate negli atti più gravi nella notte tra il 20 e il 21 giugno del 2023. Dopo avere effettuato una perquisizione non autorizzata, i poliziotti – con la partecipazione anche di agenti liberi dal servizio – avrebbero in quel frangente brutalmente picchiato almeno cinque detenuti, nudi e scalzi, trascinandoli dalla cella all’infermeria e poi in isolamento. Dove, secondo quanto ricostruito dai pm, sarebbero rimasti «senza cibo né acqua, senza vestiti né coperte» fino al giorno seguente. Secondo i giudici, gli agenti avrebbero agito con tali modalità al fine di «impartire ai detenuti una lezione su come ci si doveva comportare» tra le mura carcerarie. Per i poliziotti sospesi dal servizio, secondo la Procura, sussisterebbe «un concreto e attuale pericolo di reiterazione», trattandosi «di soggetti attualmente in servizio presso lo stesso carcere e stabilmente a contatto con i detenuti».
Il reato di tortura, insieme alla previsione di un’aggravante nel caso in cui a commetterlo siano agenti delle forze dell’ordine, è stato introdotto nel nostro ordinamento, con grande ritardo, solo nel 2017. Contro tale fattispecie di reato, presente in più di 100 Paesi del mondo, è però corso all’attacco Fratelli d’Italia, partito della premier Giorgia Meloni e principale azionista di governo, che ne ha proposto l’abrogazione e la derubricazione ad aggravante comune. Preoccupati dalle mosse dei partiti di maggioranza sul tema, lo scorso dicembre i membri del Consiglio d’Europa hanno invitato «caldamente» il governo Meloni a «garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della CEDU». Messo alle strette, l’esecutivo italiano ha riferito all’Ue di «non avere alcuna intenzione» di abrogare il reato, in una comunicazione che va a smentire mesi di dichiarazioni e proposte in senso contrario di molti esponenti di maggioranza.
[di Stefano Baudino]