giovedì 21 Novembre 2024

Mandato della CPI contro Netanyahu: quali sono le possibili conseguenze?

Sono passate poche ore da quando la Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale ha deciso di emettere mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, ma sono già arrivate le prime reazioni. Da Israele, partendo dal governo e passando per l’opposizione, piovono le accuse di antisemitismo contro la CPI e contro il procuratore Karim Khan. A Bruxelles, l’Alto Commissario per gli Affari Esteri uscente, Josep Borrell, ha ricordato ai Paesi membri dell’UE che gli ordini della CPI sono vincolanti, e che in ogni Paese firmatario vige l’obbligo di arrestare gli accusati nel caso in cui si trovassero su suolo nazionale. Negli USA, invece, uno dei primi a esprimersi è stato il futuro consigliere per la Sicurezza Interna, Mike Waltz, che ha mostrato pieno sostegno a Netanyahu, così come la stessa Casa Bianca. Una domanda, tuttavia, sorge spontanea: quali sono, fuori dalle dichiarazioni, le possibili conseguenze di tale decisione? Dalle questioni giuridiche a quelle di natura politica, i potenziali scenari sono molteplici e gli effetti dei mandati meno scontati di quanto appaiano.

Mandati di arresto della CPI: accuse e reazioni

I mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant sono stati richiesti dal procuratore della CPI, Karim Khan, lo scorso 20 maggio. Nei loro confronti sono state formulate accuse di crimini di guerra e contro l’umanità, commessi «sul territorio dello Stato di Palestina (nella Striscia di Gaza) almeno dall’8 ottobre 2023». Tra questi vi sono l’affamare la popolazione come strategia di guerra, il «causare intenzionalmente grandi sofferenze, o gravi lesioni al corpo o alla salute», l’«uccisione intenzionale» e gli «attacchi intenzionalmente diretti contro la popolazione civile», lo sterminio, la persecuzione e altri «atti inumani». Tutte le accuse lanciate da Khan sono state accolte, ed è stato analogamente riconosciuto l’intento “punitivo” verso i civili che secondo il procuratore si cela dietro i vari crimini di Israele.

Le prime reazioni ai mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant sono arrivate poco dopo l’annuncio della CPI. Il primo a esporsi è stato il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, che ha condannato fermamente la decisione della Corte. Qualche ora dopo è arrivata la risposta di Netanyahu, che si è scagliato contro il procuratore Karim Khan: «La decisione di emettere un mandato di arresto contro il Primo Ministro è stata presa da un procuratore capo corrotto che sta cercando di salvarsi dalle accuse di molestie sessuali e da giudici prevenuti, motivati ​​dall’odio antisemita verso Israele». Una delle prime reazioni internazionali, invece, è arrivata dal Ministero degli esteri olandese, che ha comunicato che se Netanyahu o Gallant dovessero trovarsi su suolo nederlandese, verranno arrestati. In Italia il primo a esprimersi è stato Antonio Tajani, che ha parlato con quella particolare opacità mascherata da moderatezza che contraddistingue il linguaggio della politica: «Noi sosteniamo la CPI ricordando sempre che la Corte deve svolgere un ruolo giuridico e non politico. Valuteremo insieme ai nostri alleati cosa fare e come interpretare questa decisione e come comportarci insieme su questa vicenda». La Casa Bianca, infine, ha espresso piena condanna verso la decisione della CPI.

Conseguenze giudiziarie

Le conseguenze più dirette del mandato di arresto sono certamente quelle di natura giuridica. Malgrado le dichiarazioni di Tajani, dopo l’emanazione di un mandato d’arresto da parte della CPI c’è poco da «valutare» o «interpretare»: si deve semplicemente rispondere ai propri doveri. Le decisioni della Corte Penale, infatti, sono vincolanti e i Paesi firmatari hanno l’obbligo di rispettarli. I mandati di cattura, di preciso, stabiliscono che i Paesi arrestino le persone coinvolte nel caso in cui esse mettano piede nel loro territorio, per poi consegnarle al Tribunale. Gli stessi Stati Uniti hanno ricordato spesso questi doveri ai firmatari, specialmente nel caso dei mandati contro Putin. L’ultima volta risale giusto allo scorso settembre, quando Putin è volato in Mongolia nel suo primo viaggio in un Paese firmatario dello Statuto di Roma da quando è sotto ordine di cattura internazionale. Come prevedibile, la Mongolia non lo ha arrestato.

La CPI, dopo tutto, si fonda sul principio di cooperazione degli Stati e non è dotata di alcun organo esecutivo che renda efficaci le proprie decisioni. Tra i firmatari, tra l’altro, vi è un’importante lista di grandi assenti, tra cui si annoverano Stati Uniti, Russia, Cina, e la stessa Israele. Va comunque fatto un distinguo: uno dei principi fondativi dell’Italia e di quasi tutti i Paesi europei è quello della separazione dei poteri. Nel caso in cui Netanyahu dovesse atterrare in Italia, a prendersi carico dell’onere sarebbe l’autorità giudiziaria; risulta insomma improbabile che egli non venga arrestato nel caso arrivasse in un Paese comunitario. Le conseguenze giudiziarie dei mandati di arresto, tuttavia, sono facilmente evitabili: Gallant è stato licenziato, mentre Netanyahu può farsi rappresentare in Europa dai suoi alleati, e intanto continuare a viaggiare indisturbato negli USA. Se poi la crisi interna in Israele dovesse farsi tanto forte da costringerlo a dimettersi, il nuovo capo del governo non sarebbe soggetto ad alcun mandato di cattura, e potrebbe continuare indisturbato il genocidio del popolo palestinese.

Conseguenze politiche e contro la CPI

I possibili effetti politici risultano invece più incerti. Da Israele e Stati Uniti non ci si aspetta rovesciamenti di fronte, ma è molto probabile che essi si muovano contro la stessa CPI. Dopo tutto non sarebbe la prima volta che gli USA minacciano i funzionari della Corte per avere svolto il proprio lavoro, tra cui lo stesso Khan. Era già successo nel 2020 nei confronti di due membri della Corte che avevano aperto delle indagini sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi dagli USA in Afghanistan. A giugno, poi, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una bolla proposta dai repubblicani che prevede l’applicazione di sanzioni e misure restrittive contro i giudici della Corte Penale Internazionale “impegnati in qualsiasi tentativo di indagare, arrestare, detenere o perseguire qualsiasi” politico statunitense o “persona protetta” dal Paese che come gli USA non riconosca la CPI. I riferimenti a Khan, Israele e Netanyahu non risultano casuali, e sono inseriti in maniera esplicita. A tal proposito, Israele è già a lavoro per formulare raccomandazioni e proposte su come punire la CPI, che presenterà all’amministrazione Trump.

Che dire invece dei leader europei? Continueranno a mandare armi a uno Stato il cui Presidente è accusato di crimini di guerra e contro l’umanità? Lo proteggeranno in sede internazionale? Proveranno a incontrarlo volando a Tel Aviv?  Gli scenari possibili sono molteplici, e indubbiamente l’emissione del mandato della CPI ha una sua rilevanza dal punto di vista politico. Tuttavia, è difficile che esso faccia scaturire una reazione nell’immediato da chi, come l’Italia, è sempre rimasto, nel migliore dei casi nella comoda zona d’ombra dell’astensionismo. Con ogni probabilità, invece, potrebbe rilanciare le cause spagnola e irlandese, che in Europa sono i due Paesi che più si sono spesi a favore di un riconoscimento della Palestina e di un embargo contro lo Stato ebraico. In generale, il mandato potrebbe spingere Madrid e Dublino ad aumentare la pressione a livello internazionale – e in prima istanza tra le mura dei palazzi di Bruxelles – perché gli Stati si coordinino per fare qualcosa di concreto che scongiuri le azioni di Israele in Palestina.

Le reazioni possibili sono diverse, ma è difficile dire con certezza cosa succederà. Probabilmente i più eviteranno di esporsi troppo dal punto di vista politico, e aspetteranno di vedere come la presidenza Trump gestirà la cosa. Focale, a tal proposito, potrebbe risultare l’eventuale cambio di politica commerciale degli USA che, in caso di eccessiva rottura con l’UE, potrebbe spingere alcuni Paesi comunitari a riconsiderare il proprio rapporto con Washington e di conseguenza anche le altre relazioni internazionali.

[di Dario Lucisano]

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