Con una sentenza che si può definire storica, lo scorso 11 novembre una giuria federale statunitense ha ritenuto un appaltatore della Difesa come legalmente responsabile di aver contribuito alle torture sui detenuti di Abu Ghraib, in Iraq. La giuria ha assegnato un risarcimento di 42 milioni di dollari a tre uomini iracheni: un ex giornalista di Al Jazeera, un preside di scuola media e un venditore di frutta, tutti detenuti nella famigerata prigione due decenni fa. I querelanti accusavano la società CACI, con sede in Virginia, di aver cospirato con i soldati americani per torturare i detenuti. CACI era stata ingaggiata dal governo statunitense per fornire servizi di interrogatorio nella prigione. Tuttavia, la decisione, pur importante, mette in luce un altro fattore. Sull’altare delle responsabilità di una delle pagine più buie della democrazia americana finisce solo un’azienda privata, mentre i vertici dell’esercito e i soldati ne escono con l’immagine immacolata.
Il caso, noto come Al Shimari v. CACI, è stato avviato nel 2008 dal Center for Constitutional Rights (CCR) per conto di quattro vittime di tortura irachene contro le società CACI International Inc. e CACI Premier Technology. Dopo l’apertura del procedimento, CACI International è stata esclusa, lasciando CACI Premier Technology come unica imputata. Le accuse includevano la partecipazione a pratiche illegali, tra cui tortura, trattamenti crudeli e degradanti, crimini di guerra, aggressioni fisiche e sessuali, e inflizione intenzionale di stress emotivo. La causa è stata portata avanti in base all’Alien Tort Statute (ATS) e alla giurisdizione federale per violazioni del diritto statunitense e internazionale. Dopo 16 anni di contenzioso, oltre 20 tentativi di CACI di ottenere l’archiviazione del caso e un precedente processo senza verdetto, la società è stata infine condannata a risarcire i tre querelanti.
«La giuria ha inviato un messaggio molto chiaro: gli appaltatori che lavorano con il governo all’estero saranno ritenuti responsabili delle violazioni commesse dai loro dipendenti», ha dichiarato Katherine Gallagher, avvocato senior del CCR. Gallagher ha descritto il caso come un evento unico nel suo genere, che offre una rara misura di giustizia ai sopravvissuti del regime di tortura statunitense post-11 settembre, un sistema che si estendeva da Guantanamo all’Iraq, all’Afghanistan e alle prigioni segrete in tutto il mondo. «Porta anche un nuovo livello di responsabilità nel settore oscuro degli appaltatori privati della sicurezza, parte integrante della “guerra al terrore” degli Stati Uniti, spesso implicati in violazioni dei diritti umani globali», ha scritto il CCR.
Tuttavia, sebbene la sentenza rappresenti un momento storico e dia una speranza di giustizia, l’esercito e le sue gerarchie sono rimasti immuni da responsabilità. La colpevolezza di un’azienda privata appare accettabile, ma ammettere quella dell’esercito e del governo statunitense è un’altra questione. Gli avvocati di CACI hanno infatti sostenuto che l’azienda non dovrebbe essere ritenuta responsabile per le azioni dei suoi dipendenti, poiché questi agivano sotto la supervisione dell’esercito. Secondo CACI, qualsiasi risarcimento per cattiva condotta dovrebbe spettare all’esercito, dal momento che non vi sarebbero prove definitive che il loro personale abbia abusato dei tre querelanti, lasciando intendere che le torture potrebbero essere state perpetrate dai soldati stessi. Di conseguenza, emerge un interrogativo: se CACI è responsabile, perché non lo sono anche l’esercito e il governo statunitense, almeno in qualità di supervisori e mandanti? Inoltre, il caso si basa sulla definizione legale di “cospirazione”, ma una cospirazione con chi, se non con lo stesso esercito statunitense?
Tra le vittime, Suhail Najim Abdullah Al Shimari, preside di una scuola media, fu detenuto dal 2003 al 2008 e, per circa due mesi, trattenuto ad Abu Ghraib. Durante quel periodo, il personale di CACI lo sottopose a scosse elettriche, privazione di cibo, minacce con cani e lo costrinse a rimanere nudo mentre eseguiva esercizi fisici fino allo sfinimento. Asa’ad Hamza Hanfoosh Zuba’e, venditore di frutta, fu imprigionato tra il 2003 e il 2004 e torturato con il waterboarding, sottoposto a temperature estreme, percosso ai genitali con un bastone e privato dei sensi per quasi un anno. Salah Hasan Nusaif Al-Ejaili, giornalista di Al Jazeera, fu detenuto per circa due mesi e subì minacce con cani, privazione di cibo, percosse e isolamento in condizioni di deprivazione sensoriale. Infine, Taha Yaseen Arraq Rashid, escluso dal caso nel 2019, fu detenuto dal 2003 al 2005. Durante la prigionia, subì posizioni di stress prolungate, privazioni di cibo, acqua e ossigeno, scariche elettriche e pestaggi così violenti da provocargli fratture e perdita della vista. Rashid fu anche costretto ad atti sessuali mentre era incatenato e assistette allo stupro di una detenuta.
[di Michele Manfrin]