La strana e ancora inspiegabile morte di Bernardino Budroni, per tutti Dino, appena archiviata dalla Corte di Appello di Roma con la prescrizione per il reato di omicidio colposo dell’agente di polizia Michele Paone, è iniziata molti anni fa, in un sabato sera d’estate a Fonte Nuova, alle porte della capitale. Dove la Via Nomentana si spoglia via via del grigio di palazzi e palazzoni e si veste col verde della campagna, mentre il traffico incessante lascia lentamente il posto a casolari, fattorie e filari di alberi. Era il 30 luglio 2011, quando Dino è uscito di casa dopo cena, alla fine di un’altra giornata canicolare: una doccia, la camicia pulita, lo stereo della Focus acceso e via verso Cinecittà, pancia a sud-est dell’Urbe. Destinazione Via Quintilio Varo, nel reticolo fitto di strade alle spalle della Tuscolana, a casa della sua compagna. Una donna di 41 anni che ha convissuto con lui per cinque mesi nella casa della famiglia Budroni, dove Dino viveva con genitori e sorella e dove hanno atteso 13 anni la verità, o perlomeno qualche spiegazione più plausibile di quelle che hanno letto nei verbali e negli atti giudiziari. Tredici anni per capire cosa sia davvero successo quella maledetta notte, la notte in cui Dino è finito col capo riverso sul volante della sua auto, con un proiettile calibro 9 in corpo, la vita volata via e un catalogo completo di cose, particolari e indizi che non tornano, si contraddicono, non hanno spiegazione o, anche peggio, non sono mai stati presi in considerazione.
Lite sotto casa al Tuscolano
La versione ufficiale, quella che è stata spazzata via sette anni dopo con la condanna di un poliziotto, assolto in primo grado nel 2014, è la fotografia di tante situazioni tristemente dolenti. Lui che va da lei e dà in escandescenze, i toni che si alzano, le porte che sbattono o che vengono forzate, la chiamata al 112 per chiedere aiuto. Lo hanno definito stalker, anche gli agenti intervenuti sul posto. La fidanzata che aveva dormito da lui anche tre sere prima dei fatti, ha presentato denuncia per minacce e danneggiamento alle 6.15, circa un’ora dopo di quella in cui sarebbe avvenuta la sparatoria – secondo la ricostruzione degli inquirenti – e ben oltre secondo un testimone che passando in auto sul Grande Raccordo Anulare per andare al lavoro, ha visto il corpo senza vita di Budroni al posto di guida, con la sua auto ferma e le volanti ferme dietro. Il testimone, l’unico testimone oculare di cui si è avuta notizia, non è mai stato sentito o interpellato da nessuno. Si chiamava Franco Casalino.
Corsa sul raccordo tra buio e luce
Gli agenti hanno messo a verbale che Budroni è stato visto salire in macchina e allontanarsi a forte velocità, e a fari spenti, dall’abitazione della fidanzata, e da lì ha poi preso il via un inseguimento da parte di due volanti della Polizia nel buio più totale, secondo quanto dichiarato dall’ispettore Stabile che guidava Volante 10, al suo fianco l’ispettore Michele Paone che hai poi aperto il fuoco. Peccato però che per le effemeridi di quel giorno abbiano registrato l’alba civile alle 4.30, ossia il momento la visibilità è piena e non serve più luce artificiale: o Stabile non ricordava bene, oppure i verbali che datano più tardi il tutto, contengono orari inesatti e non corretti.
Lo scontrino fantasma
Per gli orari, che in ogni fatto di cronaca sono uno dei criteri per diradare le nebbie, c’è anche un altro particolare mai appurato. Nel portafoglio di Dino è stato trovato lo scontrino di un bar sulla Nomentana battuto alle ore 4.14, il documento era stato inserito nel fascicolo. Come poteva essere in quel locale a quell’ora, a due passi da casa, se negli stessi momenti lo hanno segnalato e poi inseguito al Tuscolano? Oltre tutto, poco prima delle 4, ha ricevuto una telefonata dal cognato che chiedeva sue notizie, rassicurandolo sul suo imminente rientro a casa: complicato immaginarlo che potesse dirlo mentre era inseguito sul GRA da due volanti – a cui si è poi aggiunta una gazzella dei carabinieri – lanciate a tutta velocità.
Auto in corsa, praticamente ferme
Tutta la vicenda e il suo esito giudiziario è ruotata attorno a quello che è stato definito un inseguimento «a forte velocità», il punto dirimente è se la Focus di Budroni fosse ancora in movimento o si fosse fermata, nel momento in cui Paone ha esploso due colpi dalla sua Beretta di ordinanza. «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Queste le dichiarazioni del carabiniere Giudici, autista della gazzella dei Carabinieri che ha partecipato all’inseguimento. E poi ancora: «Ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Dalla deposizione dell’uomo dell’Arma, pare proprio che le vetture fossero ferme e che Dino Budroni avesse arrestato la sua Focus all’intimazione delle forze dell’ordine. La Ford è stata trovata incastrata verso il guardrail, tra le due volanti e la pattuglia dei carabinieri, difficilmente da quella posizione avrebbe potuto svicolare e buttarsi nell’uscita Nomentana in prossimità della quale è successa la sparatoria. Il corpo di Budroni era riverso a destra verso il sedile passeggero che è stato trovato reclinato, senza nessun motivo apparente e senza che nessuno ne abbia accertato il motivo.
«Vagli addosso!»: due colpi di Beretta e poi il silenzio
Il giudice di primo grado ha assolto l’agente Paone, che avrebbe dovuto essere al posto del collega alla guida della volante, dall’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi. Per il magistrato, sparare è stata una condotta «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Il pubblico ministero, al contrario, ha sostenuto che Paone ha sparato male e soprattutto inutilmente, visto che la Focus era già ferma e non c’era bisogno di ricorrere all’uso delle armi. L’autopsia ha accertato che la morte sia sopraggiunta per un colpo sparato da dietro verso avanti, da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto: i fori di entrata, nello sportello posteriore sinistro, lasciano immaginare le loro traiettorie, uno dei due colpi dopo aver trapassato le lamiere si è conficcato nella schiena di Budroni, provocandogli la morte. Agli atti dell’inchiesta, però, non è stata inserita la perizia del consulente della famiglia, dottor Carlo Messina, così come le perizie balistiche e stradali. C’era però una corposa relazione dei Ris, secondo la quale l’inseguimento si è svolto tra 50 e 80km/h, non certo a folle velocità, e i proiettili sono stati sparati a distanza di 0,9-1,14 secondi uno dall’altro. Paone ha sostenuto di aver sparato mirando alle gomme della Focus, gli avvocati della famiglia hanno sempre sostenuto che i colpi sono stati sparati ad altezza d’uomo e coi veicoli fermi, come testimonierebbe un’audio dell’inseguimento che era stato stranamente smarrito e non compariva agli atti. Nello stesso audio, si sentono le voci degli operatori delle Forze dell’Ordine che urlano «vagli addosso!», mentre nelle ricostruzioni sarebbe stato Budroni a speronare le volanti con la sua Focus.
Contro le leggi di Newton
Sui due colpi sparati, poi, il caso Budroni, tra le sue stranezze e i suoi buchi logici e investigativi, sembra aver controvertito addirittura le regole di Newton. I bossoli della Beretta sono stati rinvenuti davanti alla Volante 10 e a sinistra, rispetto al punto in cui sono stati sparati, nonostante il fatto che la Beretta abbia l’espulsione destrorsa, come quasi tutte le armi da fuoco. Se i veicoli fossero stati in movimento, come sostenuto dai legali di Paone, i bossoli sarebbero stati risucchiati alle loro spalle, come succede a qualcosa che venga gettato dal finestrino ad auto in corsa: i bossoli, invece, sono stati trovati dalla parte opposta rispetto alla quale avrebbero dovuti essere secondo elementari leggi fisiche. Eppure, secondo i Ris, la valutazione della loro posizione è «un dato non stringente per la ricostruzione dei fatti».
«Colpito a morte, ha parcheggiato l’auto»
«In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti carabinieri risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal carabiniere Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Secondo le motivazioni del giudice di primo grado, in buona sostanza, Dino Budroni già colpito a morte dal proiettile sparato dall’agente Paone ha arrestato la sua macchina, ha inserito la marcia, ha tirato il freno a mano e ha alzato le braccia per arrendersi: agonizzante, appena arrivato all’ospedale Pertini è stata dichiarata la sua morte, ha praticamente parcheggiato l’auto e si è arreso. Nel secondo grado di giudizio, nel 2018, la prima sezione della Corte di Appello ha ribaltato completamente un impianto giudiziario di questo tipo, evidentemente non proprio solido. L’agente Paone è stato giudicato colpevole di «omicidio colposo con eccesso colposo dell’uso legittimo delle armi putativo e per un evento diverso da quello voluto».
L’avvocato della famiglia: ucciso a sangue freddo
Nel 2019 la Cassazione ha accolto il ricorso dei legali dell’agente e ha annullato la sentenza di secondo grado per vizio di motivazioni: dallo scorso gennaio si è svolto un processo bis nel quale l’avvocato della famiglia Budroni, Sabrina Rondinelli, ha ribadito che Dino è stato praticamente ucciso a sangue freddo, senza nessuna«grave e prolungata resistenza» ribadita dal difensore dell’agente Paone. La Corte ha stabilito che la prescrizione, intervenuta nel frattempo, impedisce di procedere, condannando però l’agente ad un risarcimento del danno alla mamma e alla sorella di Dino. Non è più possibile accertare le sue responsabilità perché la giustizia non è riuscita a farlo nei tempi che essa stessa si è data: il solito finale di chi decide di non decidere.
[di Salvatore Maria Righi]