Nell’ultima settimana, il conflitto inaspettatamente riaccesosi in Siria ha catalizzato l’attenzione di tutto il mondo. Tutto è cominciato la mattina di mercoledì 27 novembre, quando i combattenti dell’opposizione siriana hanno lanciato l’operazione “Alba della Libertà”, un’offensiva ad ampio raggio contro le posizioni dell’esercito regolare, catturando rapidamente più di una dozzina di città. Il fronte di opposizione ad Assad, leader della Siria, sembrerebbe guidato dall’organizzazione islamista Hayat Tahrir al Sham (HTS), parte dell’eterogeneo gruppo di “ribelli” siriani, storicamente vicini alla Turchia. Sin da subito, sono emerse supposizioni su chi possa celarsi dietro questa offensiva dai rari precedenti: HTS opera per conto proprio o è guidata dalla Turchia nella sua smania anti-curda? O forse Ankara intende riaprire la guerra per procura con Russia e Iran? E se, invece, Erdogan non fosse coinvolto, e il principale responsabile fosse lo Stato ebraico, in un tentativo di infliggere un duro colpo al proprio rivale regionale? Di fronte a queste ipotesi e ai frenetici incontri diplomatici, la situazione in Siria rimane in continua evoluzione, lasciando spazio a numerose interpretazioni.
Cronaca del conflitto
L’operazione dei ribelli siriani sembrerebbe partita da Idlib, roccaforte anti-Assad, con un assalto armato combinato su più assi lungo le principali infrastrutture autostradali della regione. Sul fronte settentrionale, i ribelli hanno puntato subito ad Aleppo, la seconda città della Siria, mentre su quello meridionale l’obiettivo erano i punti di snodo tra Aleppo e Damasco. Il primo giorno di combattimenti ha visto l’avanzata spingersi, a sud, nei pressi della città di Saraqeb, e, a nord, alle porte occidentali di Aleppo, collegando così il fronte settentrionale al territorio controllato dall’altra coalizione anti-Assad, il filoturco Esercito Nazionale Siriano, che pare anch’esso coinvolto nelle incursioni. Nei giorni successivi l’avanzata è proseguita rapidamente: il 28 novembre la campagna occidentale di Aleppo era sotto pieno controllo ribelle, mentre continuava ad allargarsi anche il fronte meridionale. Lo stesso giorno, ad Aleppo, è stato ucciso Kioumars Pourhashemi, un comandante delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane. Tra il 29 e il 30 novembre, Aleppo è stata conquistata, e i ribelli sono avanzati sia a nord, fino a Tal Rifaat, sia a sud, presumibilmente verso Homs, la terza città del Paese. Attualmente, il fronte più caldo è alle porte di Hama, città a una cinquantina di chilometri da Homs. Dopo mercoledì, la Russia si è mobilitata per sostenere il governo di Assad, e oggi sono state attaccate Idlib e Aleppo. I media siriani affermano che alcune città siano già state liberate.
Il coinvolgimento della Turchia e la repressione dei curdi
Subito dopo la notizia della ripresa dei combattimenti, la macchina diplomatica mondiale ha iniziato a muoversi, e con essa anche i tentativi di spiegazione delle incursioni ribelli. La Turchia si è sin da subito defilata da ogni possibile attribuzione di responsabilità, anche se molti sono convinti di un suo potenziale coinvolgimento. Durante la guerra civile siriana, scoppiata dopo la primavera araba, la Turchia ha preso le parti dei ribelli anti-Assad, mentre il governo in carica è stato supportato, tra gli altri, da Russia e Iran. C’è chi, a tal proposito, ritiene che Ankara abbia approfittato del momento di debolezza delle milizie filo-iraniane che operano in territorio siriano (prima fra tutte la libanese Hezbollah) per ampliare il proprio raggio di influenza nella regione. Altri, come l’analista geopolitico George Meneshian o le varie sigle curde, accusano la Turchia di aver architettato tutto per portare avanti il proprio piano di repressione del popolo curdo, cosa che sarebbe comprovata dalla vicinanza della zona colpita con il Rojava (il cosiddetto “Kurdistan siriano”), dagli attacchi alle città curde e da presunti episodi di repressione nei confronti degli stessi curdi che abitano a ovest di Aleppo. Sulla cittadella di Aleppo, inoltre, sembrerebbe essere comparsa una bandiera turca.
Queste ipotesi, seppur valide, verrebbero smentite dallo stesso operato di Erdogan, che sta sempre più normalizzando i rapporti con Assad, tanto che lo scorso luglio lo aveva invitato a un incontro ad Ankara. Le autorità turche, inoltre, si sono incontrate con quelle iraniane oggi stesso, rimarcando la necessità di mantenere l’efficacia del processo di pace di Astana, che portò alla de-escalation in territorio siriano. Le autorità del Governo di Salvezza Siriano (SSG), l’esecutivo di opposizione anti-Assad che di fatto governa Idlib, avrebbero inoltre dato ai curdi il tempo di evacuare la zona; esse, inoltre, hanno rilasciato un comunicato in cui rassicurano i curdi sostenendo di non volersi opporre a loro, ma al governo centrale: «I curdi siriani hanno il pieno diritto di vivere in dignità e libertà, come tutto il popolo siriano. Affermiamo il nostro rifiuto categorico delle pratiche barbare commesse dall’ISIS contro i curdi, inclusa la prigionia e altri metodi offensivi per il nostro Islam, i nostri costumi e le nostre tradizioni». Tutto questo non significa che Ankara non sia coinvolta o che l’obiettivo non sia quello di reprimere il popolo curdo, ma che in questo momento è difficile sostenerlo con piena certezza. I curdi, intanto, sembrano mostrare supporto ad Assad e mobilitarsi contro le milizie dell’HTS.
Le mire di Israele
Nel loro comunicato congiunto, Turchia e Iran rimarcano che «ignorare il ruolo del regime sionista nel creare disordini e conflitti nella regione e nei Paesi della regione sia un errore», accusando velatamente lo Stato ebraico di essere dietro gli attacchi anti-Assad. Effettivamente, l’indebolimento del fronte siriano, e dunque indirettamente dell’Iran, porterebbe diversi vantaggi a Israele, che ha recentemente siglato un accordo di cessate il fuoco con le milizie libanesi di Hezbollah. Proprio in virtù del cessate il fuoco, inoltre, sarebbe stato difficile trovare un momento più propizio di questo per destabilizzare la Siria, la cui sicurezza dipende in larga parte proprio da Hezbollah. A sottolineare come gli attacchi in Siria costituiscano una sostanziale «buona notizia» per Tel Aviv sono gli stessi israeliani: secondo Daniel Rakov, tenente colonnello di riserva dell’IDF e ricercatore del Jerusalem Institute for Strategy and Security specializzato in politica russa in Medio Oriente, «la caduta del nord della Siria nelle mani dei ribelli danneggerebbe le infrastrutture degli iraniani e di Hezbollah e renderebbe loro difficile lavorare per restaurare il movimento». Tutto questo, inoltre, metterebbe «in grande imbarazzo Mosca», finendo per indebolire la presenza russa in Medio Oriente.
A tal proposito, il giornalista Mike Whitney sottolinea come «per dominare davvero la regione, Israele deve rovesciare il governo di Damasco e installare un regime fantoccio simile a quello della Giordania e dell’Egitto». Ora che Trump, il quale ha promesso a Israele «pieno supporto» contro l’Iran, ha vinto le elezioni, la strada sembrerebbe spianata. La caduta del governo di Assad, come evidenzia anche Rakov, comporterebbe l’uscita della Russia dalla Siria, agevolando indirettamente anche gli Stati Uniti. Alcuni media israeliani riportano persino che Mordechai Kider, studioso israeliano di orientalistica, avrebbe dichiarato di essere in contatto con i ribelli siriani, i quali avrebbero chiesto aiuto a Israele. Tuttavia, come sottolinea Pierre Haski, una eventuale caduta della dinastia Assad, ben nota a Israele da oltre cinquant’anni, non garantirebbe necessariamente un beneficio a Tel Aviv. Il fronte ribelle è estremamente eterogeneo, composto, rimarca Steven Cook, da forze con livelli diversi di radicalismo e legami variabili con la Turchia. Quest’ultima, pur non essendo l’Iran, ha recentemente assunto una postura fortemente anti-israeliana. La caduta di Assad e il ritiro della Russia potrebbero aprire la strada ad Ankara per interventi diretti, rischiando di far passare Israele da una situazione difficile a una ancora più complessa.
Le aspirazioni di HTS
Un’ultima ipotesi, considerata da pochi, è che dietro gli attacchi ribelli ci siano gli stessi ribelli. Le autorità dell’SSG, infatti, hanno rilasciato diversi comunicati per ribadire che il loro unico obiettivo sono le forze filo-Assad e che non intendono reprimere gli abitanti delle aree conquistate né espandersi oltre i confini siriani. Oltre alla nota indirizzata al popolo curdo, l’SSG ha pubblicato dichiarazioni di solidarietà verso i cittadini di Aleppo e delle aree limitrofe, sottolineando che «non smantelleranno le istituzioni presenti, ma che il nostro obiettivo è fornire un ambiente sicuro e stabile sotto l’egida della verità e della giustizia, dove tutti possano vivere la propria vita liberamente e con dignità senza paura o minaccia». Anche analisti come Meneshian, che considera l’opposizione non come un movimento ribelle, ma come mercenari al soldo della Turchia, hanno osservato che, almeno per ora, non sono stati segnalati episodi di repressione contro le minoranze cristiane.
A tal riguardo, va sottolineato che l’equivalenza tra HTS – il principale, anche se non unico, movimento coinvolto – e lo Stato Islamico, avanzata da molti, risulta sotto certi aspetti impropria. HTS è infatti nato dall’unione di diverse sigle inizialmente accomunate da aspirazioni simili a quelle dello Stato Islamico, ma che nel tempo si sono moderate e localizzate. Negli anni, HTS è diventato un movimento di opposizione focalizzato unicamente contro Assad, circoscrivendo le proprie mire alla sola «liberazione» della Siria. Questo non significa necessariamente che le milizie islamiste rappresentino i liberatori che affermano di essere, ma permette di inquadrare i loro obiettivi come attori diretti in gioco. Spesso, infatti, guardando il quadro geopolitico generale, si tende a dimenticare che ogni forza coinvolta possiede aspirazioni proprie, non necessariamente subordinate a quelle dei propri alleati.
Gregory Waters ritiene che dietro ai movimenti di Al-Jolani, leader di HTS, ci siano le stesse mire del movimento ribelle. Secondo l’analista, HTS intende conquistare più territorio possibile in breve tempo, consapevole di non essere in grado di sostenere una guerra a lungo termine. Un rapido successo potrebbe infatti costringere l’alleato turco a intervenire per difendere le nuove conquiste, se non addirittura a concedere il via libera per un’offensiva più ampia: «Sul piano diplomatico, la Turchia potrebbe lavorare per raggiungere un nuovo accordo con la Russia che preveda il congelamento della nuova linea del fronte», oppure un parziale ritiro delle truppe ribelli in cambio della fine degli attacchi. «Militarmente, una no-fly zone imposta dalla Turchia contribuirebbe notevolmente a garantire i guadagni dell’opposizione, mentre un’offensiva turca contro le regioni controllate congiuntamente dal regime e dai curdi a nord della città di Aleppo costringerebbe il regime a disperdere in modo significativo le sue forze».
[di Dario Lucisano]
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