Negli Stati Uniti si è appena concluso il Native American Heritage Month, ovvero il mese dedicato al patrimonio della cultura nativo-americana, istituito per la prima volta il 3 agosto 1990 dal Presidente George H. W. Bush. Questo mese commemorativo mira a fornire una piattaforma per i nativi degli Stati Uniti d’America, affinché possano condividere la loro cultura e le loro tradizioni. Durante il mese di novembre, le agenzie federali forniscono programmi educativi per i loro dipendenti riguardo la storia, i diritti, la cultura e le questioni contemporanee che riguardano i nativi americani, affinché venga accresciuta la consapevolezza generale dei cittadini statunitensi. Ipocrita, tuttavia, appare l’organizzazione di cerimonie e celebrazioni da parte del Pentagono, ovvero da parte di chi ha materialmente perpetrato il genocidio pensato dalla politica statunitense.
In tutti gli Stati Uniti, il Pentagono ha organizzato cerimonie e commemorazioni in favore dei popoli nativo-americani – dal raduno (powwow) intertribale in Florida sponsorizzato dall’Air Force alla celebrazione in Oregon dell’arte dei disegni sul muso degli aerei militari. L’esercito statunitense ha anche prodotto una serie di storie di pura propaganda che mirano a depotenziare il profondo conflitto insito nella storia del Paese. Un esempio è quello del sergente Breanne Donnell, membro della tribù Lakota Oglala, appartenente alla Guardia Nazionale del South Dakota, al quale è stata concessa una esenzione alle regole dell’esercito per farsi crescere i capelli. Nella tradizione nativo-americana, infatti, portare i capelli lunghi ha valenza spirituale, essendo questi ritenuti un’estensione fisica dello spirito. Altra storia pubblicata è stata quella del sergente Jesse Lookingglass, anch’egli nella Guardia Nazionale, appartenente a quattro diverse tribù – Lakota Oglala, Seneca, Navajo e Comanche. In questo caso si è fatta propaganda accostando le tradizioni delle sue tribù con la riflessione sul significato del servizio militare, dell’eredità familiare e dell’orgoglio culturale, anche se non si capisce quale sia il nesso.
Il vice segretario alla Difesa, Kathleen Hicks, è stata coinvolta nelle commemorazioni e ha tenuto un discorso definendo questo mese come «un momento per ricordare le conquiste dei popoli indigeni nel corso della storia della nostra nazione». In particolare, Hicks ha fatto riferimento alla famosa storia dei Code Talkers Navajo, che hanno usato la loro lingua madre per creare un codice di comunicazione inviolabile durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma non è chiaro a quali altre conquiste si riferisca il vice segretario alla Difesa: la storia dei nativo-americani è sì una storia di conquista, ma subita.
Sin dalla sua fondazione, nel 1775, l’esercito statunitense combatté sia contro che al fianco delle tribù nativo-americane. Dopo la Guerra d’Indipendenza e la nascita degli USA, nel 1776, l’esercito del neo-Stato non fu generoso neanche con coloro che combatterono al suo fianco, men che meno con coloro che combatterono al fianco degli inglesi. Sul sito dell’U.S. Army Center of Military History sono descritte le 14 “Campagne di guerre indiane” che vennero combattute dal 1790 al 1890, anno dell’ultimo eccidio compiuto a Wounded Knee il 29 dicembre – quando circa 300 tra donne, bambini e anziani vennero massacrati senza pietà dall’esercito statunitense e per cui sono state consegnate medaglie al valore a chi vi ha partecipato. Nella storia ufficiale riportata vi sono racconti di «spedizioni» contro «indiani irrequieti» e «ostili» che erano visti come un «ostacolo all’espansione».
Eppure, sono molte le storie non riportate, come quelle riguardanti le rimozioni forzate e le deportazioni in campi di internamento che procedevano con il dispiegarsi dell’avanzata coloniale statunitense. Tra i casi più famosi c’è quello dei Cherokee, che furono messi in campi di internamento prima di essere spinti verso ovest in quello che oggi è l’Oklahoma, uno spostamento forzato che divenne noto come il Sentiero delle Lacrime. Lo stesso destino è toccato a moltissime altre tribù. Nel 1862, il colonnello James H. Carleton, capo del Dipartimento degli Stati Uniti del New Mexico, decise che gli indigeni dovevano «cedere il passo all’insaziabile progresso della nostra razza». A tal fine, diede ordini all’uomo di frontiera Christopher “Kit” Carson di uccidere tutti gli indiani che lui e i suoi uomini riuscivano a trovare. Carson, di conseguenza, condusse una campagna militare in cui vennero bruciati villaggi, distrutti pozzi d’acqua, massacrato il bestiame e costretti i Navajo e gli Apache ad arrendersi, per poi sottoporli a una marcia forzata (The long walk) per centinaia di miglia fino a un campo di internamento. Migliaia di persone morirono per questo.
Sono moltissimi gli episodi di indicibile violenza ed efferatezza commessi dall’esercito statunitense nel processo di colonizzazione e di genocidio a danno dei nativo-americani che si potrebbero ancora citare. Risulta per questo amaramente ironico che il Pentagono festeggi oggi coloro che nel corso della propria storia ha massacrato, con il totale disprezzo di chi si è sentito, e si sente ancora, superiore.
[di Michele Manfrin]