mercoledì 8 Gennaio 2025

Il paradigma dietro al cambiamento delle città: intervista a Lucia Tozzi

Il fenomeno che sta portando negli ultimi decenni a rendere le città sempre più simili e contemporaneamente sempre più inaccessibili è complesso e ricco di sfumature. Molto spesso, a causa di un paradossale conflitto d’interessi, gli organismi preposti a raccontare questi cambiamenti con uno sguardo critico, ovvero stampa e mezzi di comunicazione, hanno perso di affidabilità, offrendo una scarsa possibilità d’informazione alla popolazione. Ne parliamo con Lucia Tozzi, studiosa di politiche urbane e giornalista, autrice di svariati testi, tra i quali L’invenzione di Milano, edito da Cronopio nel 2023.

Come stanno cambiando le città e perché tendono ad assomigliarsi sempre di più?

La trasformazione delle città è un effetto della globalizzazione sui sistemi urbani; con la crisi degli anni ’70 e l’avvento del neoliberismo ha avuto inizio un processo di competizione non più tra Stati, ma tra città. E, di conseguenza, tutti i finanziamenti sono stati concentrati sui territori considerati “vincenti”. Hanno così iniziato a propagarsi vari progetti architettonici che hanno avuto un impatto sulla stessa forma delle città, come nel caso del museo Guggenheim di Bilbao, intorno ai quali muove l’appetibilità delle stesse. È evidente che questa competizione ha permesso che le città iniziassero a collezionare una serie di elementi urbani molto simili, per strappare alle rivali nuovi flussi di denaro e persone. Si crea così un dirottamento degli investimenti diretti, che passano dalla fornitura egalitaria di servizi, come trasporti pubblici, strutture sanitarie, sportive e didattiche, alla promozione delle città attraverso nuove architetture, eventi e comunicazione. Ciò si traduce, chiaramente, in un impoverimento nella qualità della vita per gli abitanti.

Nel tuo libro L’invenzione di Milano analizzi la relazione pubblico-privato, puoi spiegarci su cosa si basa e perché è così deleteria per la città?

Le politiche milanesi, volendo inseguire il sogno di misurarsi con città decisamente più grandi, come Parigi o New York, si sono soffermate sull’esaltazione della comunicazione e sulla produzione di una specie di paradiso fiscale per l’immobiliare in concorrenza sleale nei confronti delle altre città europee, ad esempio chiedendo irrisori oneri di urbanizzazione. Tutto ciò ha portato a una difficoltà da parte del Comune nella manutenzione ordinaria degli elementi cittadini, come i parchi, i mezzi di trasporto, le piscine o le case popolari. Si è così cominciato a declinare tutto ciò che pesa sui bilanci comunali verso aziende private e società di Real Estate. Sostanzialmente, ciò che viene dichiarato come cooperazione pubblicoprivato, diventa così esclusivamente privato.

A cosa ti riferisci con il concetto di «brandizzazione della diversità»?

Negli ultimi decenni le lotte per l’uguaglianza hanno assunto una sfumatura che include il condivisibile diritto alla diversità, il quale però allo stesso tempo è diventato un brand commerciale. La convivenza di varie culture viene dunque utilizzata a scopi commerciali e di valorizzazione della rendita. In nome dell’inclusività, ad esempio, sono stati brandizzati alcuni quartieri per la loro multietnicità e ciò ha prodotto un effetto opposto alla compresenza multietnica: utilizzato per aumentare i valori immobiliari, questo paradigma ha fatalmente prodotto un’espulsione dei ceti più fragili, che spesso coincidono con le componenti multietniche della popolazione.  

Aree pedonali, ZTL e ciclabili come fenomeno di gentrificazione: siamo al paradosso in cui ci conviene difendere le città piene di traffico?

Tutti desideriamo città con una qualità dell’aria migliore. È anche vero, però, che le trasformazioni urbane più violente vengono oggi mascherate attraverso schemi fondati sulla prossimità, che alla fine si rivela prodromo della mercificazione. Spesso si fanno grandi marciapiedi e zone pedonali, ma chi se ne appropria, ad esempio, sono i bar e i ristoranti con i tavolini e chi non ha la disponibilità economica per consumare non usufruirà di quello spazio pubblico. La necessità di riappropriarsi di questo spazio viene quindi utilizzata per giustificare la densificazione e la crescita della rendita urbana. Nelle città in cui l’attivismo urbano è forte, invece, gli abitanti dei quartieri non ancora gentrificati si oppongono alle piccole forme di trasformazione, perché sono coscienti che tutti questi miglioramenti non saranno diretti a loro. Queste persone vengono così etichettate come reazionarie, quando in realtà stanno semplicemente proponendo una trasformazione alternativa, a favore degli abitanti. Questa opposizione viene orchestrata da chi governa le città e sta servendo non solo gli interessi degli immobiliaristi, ma anche dei semplici proprietari, convinti del beneficio, in realtà fasullo, dell’incremento del valore del proprio immobile.

Perché in alcuni casi anche il dissenso cittadino finisce per essere inglobato nella nuova pianificazione urbanistica?

C’è una confusione che regna sul tema della partecipazione e del lavoro molecolare dei cittadini. La popolazione che ha storicamente incarnato il dissenso politico lottando per il diritto ai servizi, nel tempo si è impoverita a causa dall’irreggimentazione in un sistema di bandi pubblici di quella popolazione attiva in progetti sociali destinati alla vita cittadina. Questi bandi, oltre che mettere in competizione le varie componenti sociali, limitano i partecipanti nella presentazione di progetti obbligatoriamente “positivi”, che trasmettano un’immagine sempre fresca della città e dell’ente che li commissiona. Tutte le istanze “dal basso” vengono così inglobate in questi bandi e trasformate in consenso, perfettamente in linea con la linea governativa della città.

La popolazione spagnola si sta ribellando in difesa del diritto all’abitare, perché in Italia il fenomeno non sembra essere compreso e mancano movimenti capaci di divenire di massa?

È vero che l’Italia da un paio di decenni rappresenta una forte anomalia rispetto al resto del mondo dove sono presenti movimenti di forte conflitto. Io, però, credo che in Italia si stia diffondendo questa nuova consapevolezza, soprattutto fra i giovani. Tra l’altro, ora esiste una produzione letteraria e accademica di analisi della realtà contemporanea decisamente più lucida rispetto al passato. Tutto ciò sicuramente darà i suoi frutti, per quanto sia esasperante vedere che il ceto politico, sempre più distante dalla verifica popolare, non sia ricettivo sulla questione. 

Cosa dovrebbe fare la politica? 

Ci si dovrebbe soffermare su politiche di rendita e redistribuzione. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta in Italia, l’idea di proprietà è stata fusa con l’idea di rendita e questi princìpi vanno obbligatoriamente invertiti. I governi devono appianare i divari territoriali e riattivare le infrastrutture di welfare nei territori marginali o interni. Poi è necessario contrastare la logica della rendita, ossia l’idea che l’obiettivo principale sia quello di alimentare tutti i processi di rendita immobiliare. Questo, a livello urbano, presenta una serie di politiche molto chiare: bisogna contrastare il capitalismo delle piattaforme degli affitti brevi, come AirBnb e Booking, come già si sta facendo a New York e Barcellona. Poi bisogna recuperare il concetto di tetto agli affitti e tornare a implementare il patrimonio di case popolari, affinché una quota sempre maggiore di popolazione abiti nelle case pubbliche. In questa maniera più gente potrà avere accesso a queste case e di conseguenza queste non diventeranno dei ghetti. Sarebbe importante anche tassare le case vuote, perché non può essere conveniente per chi ha più case mantenerle sfitte, così come ostacolare l’acquisizione di seconde proprietà. Anche aumentare gli oneri di urbanizzazione è una soluzione, oltre alla tassazione turistica, reinvestita verso i servizi per la cittadinanza. 

E noi cittadini? 

La protesta non è poca cosa, soprattutto se espressa in varie forme, come nel rifiuto consapevole di prestarsi a certi giochi. La protesta, anche quando sembra non pagare, in realtà paga. Basti vedere la lotta contro il nuovo stadio di Milano o la salvaguardia dell’area boschiva della Goccia della Bovisa, che ha portato a rallentamenti, fallimenti e riprogettazioni. Si può sembrare impotenti, ma organizzarsi funziona sempre.

Quanto è responsabile la stampa?

I media hanno una responsabilità enorme: in questi anni si è vista una decadenza fortissima della libertà di stampa. In Italia si lotta molto contro le fake news, ma solo se appartengono a certi mondi: tutti i giorni sui giornali passano fake news di tutti i tipi quando si parla di città. C’è una propaganda mediatica continua su tutte le opere di rigenerazione urbana, che non fa altro che reclamizzare acriticamente quanto siano sostenibili i nuovi quartieri, senza neanche andare a verificare i dati che vengono presentati. Quasi tutti i media sono direttamente finanziati da società immobiliari e naturalmente è difficile trovare analisi critiche dietro all’edificazione, specie se spacciata per sostenibile.

Conosci un modello virtuoso? 

L’esempio più citato è quello di Vienna. Questa città ha invertito la tendenza internazionale, mantenendo la proprietà pubblica di aree da destinare alla cittadinanza e ha manutenuto e riassegnato i patrimoni già presenti di case popolari. Ha implementato inoltre i meccanismi legati alla cooperazione e al mutualismo insieme al patrimonio pubblico, oltre ad attuare sistemi di calmierazione per gli affitti, riservando solo una fascia ridotta al libero mercato. Questo è un esempio perfetto di politiche anticicliche rispetto alla rendita, che dimostrano come questi effetti possano essere controllati e governati. Esistono delle politiche che rappresentano degli esempi da imitare e che ci dimostrano che bisogna puntare alto, perché si può e si deve fare.

[a cura di Armando Negro]

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