Le poesie possono conversare tra loro come facessero parte di un dialogo, come se si intendessero l’una con l’altra e condividessero un unico ascolto. La conoscenza è sensazione, affermava Socrate nel Teeteto di Platone, ma nessuna sensazione è isolata, quasi come se le poesie costruissero un nuovo modo di percepire e assieme trasformassero il lettore in autore, offrendogli una vista speciale sulla scena di impressioni che si intrecciano. «Tu sei l’erba e la terra, il senso/ quando uno cammina a piedi scalzi/ per un campo arato./ Per te annodavo il mio grembiule rosso/ e ora piego a questa fontana/ muta immersa in un grembo di monti:/ so che a un tratto…sgorgherà il tuo volto/ nello specchio sereno, accanto al mio»: queste le parole di Antonia Pozzi (‘Certezza’, 1938).
«Non riesco a guardare il cielo a mezzanotte/ senza che mi lampeggi la luce dei tuoi occhi,/ la tinta delicata della rosa/ senza che l’anima voli alla tua guancia», John Keats: e il suo caro amico Percy B. Shelley, così concludeva il proprio saggio, La difesa della poesia, 1821: «È impossibile legger le opere dei più celebri scrittori odierni senza esser presi dalla elettrica forza che si sprigiona dalle loro parole… I poeti sono gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sopra il presente; … le trombe che squillano a battaglia ma non sentono ciò che ispirano… Sono i non riconosciuti legislatori del mondo».
In una visione romantica non esistono sentimenti privati ma la dimensione personale si intreccia con l’interpretazione naturalistica della realtà, verso un orizzonte universale. Avviene come una trasfigurazione mediante la quale lo sguardo sulla natura va a esprimere una concezione del mondo, quasi una presa di posizione: «Sappiamo dove giacciono le nevi/ e dove i venti soffiano più gelidi…/ da lungo abbiamo imparato i disagi/ del vagabondo fuorilegge e i suoi crucci,/ ma dove davano la caccia a noi,/ ora i nostri nemici sono cacciati» (Anne Brontë, 1846). Quasi un’eco ne troviamo in Mario Luzi: «Il bracconiere, altri non può essere/ chi s’aggira per queste terre avare/ dove la lepre ad un tratta lampeggia,/ o il venditore ambulante se alcuno,/ raro, si spinge fin quassù …» (‘L’osteria’).
In autori del Novecento, in effetti, il dettaglio di natura può rendere viva, pulsante la metafora: «Questo mio odio è un vento che schiaffeggia,/ cieco ai bisogni, sordo ad ogni supplica,/ disperde e confonde ogni parola/ come ordini impartiti in mezzo alla bufera…» (Malcolm Lowry). «Non so dove i gabbiani abbiano il nido,/ ove trovino pace./ Io son come loro,/ in perpetuo volo./ La vita la sfioro/ com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo/…/ ma il mio destino è vivere/ balenando in burrasca.» (Vincenzo Cardarelli).
La poesia stessa chiude il cerchio dell’immaginario, assumendo una metamorfosi umana, diventando oggetto d’amore: «E fu a quell’età… Venne la poesia/ a cercarmi. Non so, non so da dove/ uscì, da quale inverno o fiume./ Non so come né quando,/ no, non erano voci, non erano/ parole, né silenzio,/ ma da una strada mi chiamava,/ dai rami della notte,/ …/ tra fuochi violenti/ o mentre rincasavo solo,/ era lì senza volto/ e mi toccava» (Pablo Neruda, ‘La poesia’).
«Fu questo un poeta – colui che distilla/ un senso sorprendente da ordinari/ significati, essenze così immense/ da specie familiari» (Emily Dickinson).
Sembra che la dizione poetica non accetti altro che immagini di svelamento, rifiutandosi di accettare verità banali, ordinarie. La poesia, insomma, scommette sulla impazienza, crede ai miracoli.
[di Gian Paolo Caprettini]