L’autorecupero di immobili inutilizzati da convertire in alloggi abitativi, in un’epoca in cui il bisogno di case per le fasce sociali più deboli è da troppo tempo un’emergenza, potrebbe essere una buona risposta per risolvere almeno in parte il problema. L’iniziativa costituisce una risposta nata direttamente dalle spinte delle lotte sociali per il diritto alla casa, con le occupazioni di stabili vuoti. Risalgono agli anni ’60 i primi tentativi pilota di prendere spunto da quelle lotte per mettere nero su bianco progetti istituzionali volti ad affrontare la questione abitativa. In Olanda, in particolare ad Amsterdam, il recupero di immobili pubblici abbandonati nella zona portuale era stato un modello per fronteggiare la crescente crisi alloggiativa, come accaduto ad esempio al canale Entrepotdok, sede di 82 ex-magazzini marittimi. Qualcosa di simile accadde anche in Germania, in particolare a Berlino: qui, l’amministrazione locale tentò di immaginare strategie volte alla regolarizzazione dei processi di occupazione, concentrandosi soprattutto su quelli di immobili cui proprietari erano fuori dal Paese o comunque difficilmente rintracciabili, trasformandoli in progetti abitativi speciali (hausprojekt) o in forme abitative neo-comunitariste come le “abitazioni collettive” (le famose WG, Wohngemeinschaft).
In Italia, per ora soltanto nella Regione Lazio, nel 1998 si arrivò a varare una legge, la n. 55, voluta e scritta dall’allora assessore regionale alla casa, Salvatore Bonadonna. Con un meccanismo un po’ farraginoso, la normativa prevedeva questo: il Comune avrebbe individuato strutture abbandonate e non destinate ad altri progetti, al fine di metterle in assegnazione tramite un bando riservato alle cooperative destinate alla ristrutturazione edilizia. Per quanto riguarda i costi, è previsto che al Comune spettino i lavori esterni del palazzo e gli spazi condivisi, mentre ai soci della cooperativa (e futuri inquilini) la ristrutturazione del singolo appartamento. La cooperativa, secondo una norma concordata con l’amministrazione comunale nel 2000, riceve a questo scopo un finanziamento dalla banca, grazie a una fidejussione al 100% sullo stabile da ristrutturare (e su garanzia del Comune). Il finanziamento viene restituito alla banca attraverso un mutuo che, in un certo senso (e semplificando), va a scomputo dell’affitto fino all’estinzione del mutuo stesso che, va sottolineato, resta e rimane per sempre proprietà comunale. Dal punto di vista amministrativo, quindi, la norma ha il duplice beneficio di intervenire sul bisogno alla casa e allo stesso tempo di arricchire il patrimonio pubblico.
Grazie a questo meccanismo, la cooperativa Inventare l’Abitare, la prima e per ora unica che a Roma ha partecipato ai bandi, ha ristrutturato nella capitale sei edifici, principalmente exscuole in disuso, trasformandoli in abitazioni. Il costo dell’affitto, anche se non direttamente calcolato rispetto al reddito, non è neppure lontanamente paragonabile alle cifre folli del mercato immobiliare. Gli appartamenti sono infatti destinati a fasce sociali medio-basse. Per accedere alle liste dell’autorecupero e ottenere un alloggio, non va infatti superato un certo reddito. Quando venne approvata la legge sull’autorecupero si parlò di una grande svolta innovativa per le questioni abitative. Questo permetteva infatti, tra le altre cose, che i beneficiari potessero rimanere a vivere nel proprio contesto urbano, senza essere deportati fuori città, dove sono state costruite le ultime, rarissime, case popolari.
Il Comune di Roma lo presentò come un progetto innovativo, fiore all’occhiello dell’amministrazione guidata dall’allora sindaco Francesco Rutelli. Ma, come al solito, non tutto è andato liscio. Spenti i clamori del primo annuncio, le difficoltà per mettere in pratica quei progetti arrivarono subito e i soci inquilini della cooperativa hanno dovuto tribolare non poco per spingere l’amministrazione comunale a condurre in porto quei lavori. «Nonostante si sia riusciti recentemente a far inserire dalla giunta Gualtieri l’autorecupero come la terza priorità nell’elenco delle politiche sociali del Comune, i ritardi nella realizzazione dei progetti rimangono sempre ampi – afferma Bruno Papale, presidente della cooperativa Inventare l’Abitare –, siamo in attesa di terminare altri due progetti come quello di via dei Lauri e quello di via di Grottaperfetta: il primo doveva essere concluso nel 2018 e il secondo è a tutt’oggi lettera morta. I sei progetti di autorecupero portati a termine furono realizzati soltanto grazie alla nostra testardaggine».
Sono circa 90 i nuclei familiari che ormai da anni vivono all’interno dei sei progetti terminati e qualcuno è riuscito già quasi a restituire il prestito ottenuto dalla banca. Da un certo punto di vista, nonostante i ritardi e le mancanze dell’amministrazione comunale per portare a termine quei progetti, il comportamento dei soci della cooperativa negli anni è stato a dir poco virtuoso, nel senso che ha onorato tutti i suoi doveri nei tempi previsti (a differenza del “ramo istituzionale”). Questi nonostante le difficoltà che si sono presentate ciclicamente, ultima la resistenza del Comune nel fornire la garanzia sulla fidejussione alla banca che, senza tale assicurazione, non erogherebbe mai prestiti a una cooperativa formata da persone a basso reddito, ex-sfrattati ed ex-senzacasa. Una situazione che ha portato a manifestazioni di protesta da parte dei soci-inquilini.
Sul futuro dell’autorecupero, nonostante i buoni propositi, sono in pochi a scommettere: «Il Comune ha voluto puntare sul cosiddetto housing sociale, che è un ibrido di cui non si capisce nemmeno da quali norme sia regolato, oltre a non avere alcuna efficacia per risolvere la questione abitativa. In teoria prevederebbe una quota parte del mercato immobiliare privato ad affitti a canone calmierato, ma non ha mai funzionato», dice ancora Papale. Ancora meno, dice il presidente della cooperativa, hanno avuto efficacia strumenti come il contributo all’affitto – ovvero soldi pubblici dati a fondo perduto al mercato immobiliare privato –, per non parlare di quelli che venivano chiamati residence. Spesso questi erano infatti in mano ai palazzinari romani, che ricavano grandi profitti da queste operazioni, (effettuate anche in questo caso con soldi pubblici), in cui vengono collocati sfrattati o persone a basso reddito in attesa di una casa popolare – le cui assegnazioni vengono fatte col contagocce.
I sei progetti di autorecupero condotti in porto, insieme ai due da realizzare, furono il frutto di lotte e occupazioni: tutti quei palazzi vennero infatti prima occupati e poi regolarizzati grazie ai bandi previsti dalla legge Bonadonna. Ma la cosa si è fermata lì. Dal Comune, che pure avrebbe interesse a utilizzare lo strumento dell’autorecupero, non risulta che siano allo studio nuovi bandi, né che siano state individuate alcune delle centinaia di strutture vuote e inutilizzate per far rifiorire il progetto. Insomma, nulla di questo progetto si è mosso senza la spinta di quei “brutti, sporchi e cattivi” dei senzacasa, sfrattati e occupanti. Niente di niente.
[di Giancarlo Castelli]
Quasi sempre i cittadini/inquilini sono virtuosi al contrario dei burocrati (incapaci) della PA. E poi la commistione pubblico-privato così tanto propagandata negli ultimi vent’anni non potrà mai essere favorevole al sistema pubblico perché è una strategia inventata dal sistema neo-liberista per succhiare soldi al sistema pubblico stesso. (Socializzare le spese e privatizzare il profitto: prima ora di lezione del I anno di Economia e Commercio).