L’ecologia di facciata (o greenwashing) è appannaggio di quasi tutte le industrie: da quella alimentare a quella della moda, passando per quella tecnologia fino a quella dell’energia. Non si salva nessuno. Nemmeno il mondo dei cosmetici, nonostante confezioni colorate di verde e preziose diciture “bio” sui prodotti. Tutto ciò accade, come sempre, per la mancanza di regolamentazioni chiare riguardo a cosa significhi «naturale» o «biologico» nei cosmetici, andando ad alimentare la confusione tra i consumatori e, nello stesso tempo, permettendo alle aziende di presentare i loro prodotti come più sostenibili di quanto non siano realmente.
Creare confusione con le parole (e con l’opacità)
Osservando il proliferare di confezioni che ammiccano alla sostenibilità, tra prodotti «puliti» e bollini «cruelty free», il dubbio sulla veridicità delle informazioni riportate è sorto più di una volta. I vaghi termini del marketing, come succede nella moda, sono spesso uno specchietto per attirare consumatori distratti. Secondo un rapporto della piattaforma Good on You, che si occupa di valutare la veridicità dei criteri di sostenibilità millantati dalle aziende, dopo aver analizzato circa 240 marchi di cosmetica, ha rilevato che «c’è un livello generale di trasparenza inferiore nel settore della bellezza rispetto alla moda». Questo perché la filiera della cosmesi è frammentata quanto, se non di più, quella del fashion. Un singolo tubetto di crema, ad esempio, potrebbe essere stato progettato in Italia e riempito in Cina prima di essere venduto in Canada. Al suo interno si possono trovare tantissime materie prime, ciascuna delle quali proveniente da una catena di approvvigionamento differente, alla quale spesso è difficile risalire. Tante volte i marchi fanno addirittura fatica a fornire le informazioni sugli ingredienti di base che compongono i prodotti! Una mancanza importante, visto che i cosmetici entrano in contatto con l’organo più esteso del nostro corpo: la pelle! Inutile dire che l’impatto di questa carenza (o omissione volontaria) di informazioni ha delle notevoli ripercussioni sulla salute umana. Così come a livello ambientale.
Molte delle materie prime utilizzate, infatti, sono connesse con lo sfruttamento e la distruzione ambientale, ma anche con la violazione dei diritti umani. A partire dall’olio di palma, utilizzato comunemente per le sue qualità idratanti, e responsabile della deforestazione di intere zone. Secondo il report, tutti i marchi analizzati utilizzano questo ingrediente, ma meno della metà conosce la sua provenienza; solo il 17% usa olio da fonti certificate. Stessa carenza di dati è stata rilevata anche per quanto riguarda i test sugli animali: quasi l’80% dei marchi analizzati non aveva alcuna certificazione che dimostrasse di non testare sugli animali. Tra opacità, carenza di informazioni ed etichette ingannevoli, destreggiarsi nel reparto cosmetica sta diventando sempre più complicato.
Oltre le apparenze: cosa cercare nelle etichette
Non lasciarsi abbindolare dall’estetica «verde» delle confezioni, andare oltre alle parole di facciata come «consapevole», «ecobio», «sostenibile» o «amico dall’ambiente», sono i due primi passi fondamentali per approcciarsi in maniera critica ai prodotti di bellezza. In seconda battuta, controllare la lista degli ingredienti (il famoso “inci” – International nomenclature of cosmetic ingredients), per verificare la presenza e la quantità dei presunti ingredienti di origine naturale. Un prodotto che si auto-definisce green, per essere di buona qualità, dovrebbe contenere almeno il 98/99% di questi elementi, mentre la minima parte restante sono stabilizzanti e conservanti, indispensabili per la sicurezza e la durata del cosmetico. Gli ingredienti naturali, inoltre, dovrebbero essere in alto nella lista, dimostrando di essere la percentuale maggiore contenuta nel prodotto (più gli ingredienti eco sono in alto, più il cosmetico può definirsi naturale).
Altro aspetto da valutare è la presenza o meno di sostanze non biodegradabili all’interno del prodotto; queste ultime sono molto impattanti sia per l’ambiente sia per gli organismi che lo abitano. Tra gli inquinanti più dannosi, oltre ai profumi, ci sono siliconi, petrolati e le microplastiche (al momento vietate per legge nei detergenti ed esfolianti a risciacquo, ma ancora presenti in altre formule) che spesso, nella lista ingredienti, appaiono con nomi insospettabili come Polyethylene (PE), Polymethyl methacrylate (PMMA), Nylon, Polyethylene terephthalate (PET) o Polypropylene (PP).
Tra le sostanze sintetiche da tenere d’occhio, ci sono anche silossani, tensioattivi anionici e parabeni. Questi ultimi, sospettati di fungere da interferenti endocrini (ovvero disturbare la normale funzionalità ormonale del corpo umano), oltre che danneggiare l’ecosistema marino, dovrebbero essere completamente assenti in un prodotto che si dichiara bio o eco-friendly. Conservanti sì, ma che almeno siano biocompatibili, come acido benzoico, sodio benzoato, acido sorbico e i suoi sali, potassio sorbato e sodio sorbato, tocoferolo (vitamina E) oppure oli essenziali come il tea tree oil (che in buone percentuali può funzionare da conservante).
In generale, meno ingredienti sono presenti e più informazioni dettagliate ci sono, minore è il rischio di incorrere in operazioni di greenwashing. In caso di dubbio, affidarsi a strumenti come la app Good on You o controllare gli ingredienti sul Biodizionario Cosmetico presente online, può essere un ulteriore supporto per scelte consapevoli e ben ponderate da chi ha davvero a cuore la propria pelle (e anche l’ecosistema in cui vive).
[Marina Savarese]