Finita una repressione ne comincia un’altra. In Siria dalle macerie del post-Assad si sta consolidando un regime sprezzante dei diritti umani e della democrazia. Uno scenario prevedibile, nei confronti del quale soltanto le cancellerie europee avevano nascosto la testa sotto la sabbia. La nuova Siria targata Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) ed Esercito Nazionale Siriano (SNA), a cui si aggiunge una galassia di gruppi ribelli, ha infatti preso di mira le minoranze del Paese. Tra queste figurano gli alawiti, il gruppo religioso di cui faceva parte anche la famiglia Assad, i cristiani e i curdi. Contro questi ultimi e la loro esperienza di confederalismo democratico in Rojava va avanti l’offensiva via terra, con supporto aereo fornito da Ankara. Dopo la presa di Manbij, l’SNA e l’esercito turco stanno ammassando soldati nei pressi di Kobane, città simbolo della rivoluzione curda.
Gli attacchi alle minoranze non si arrestano ai confini dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est ma procedono spediti anche nelle aree dove si è insediato il nuovo regime, guidato dal gruppo jihadista Hay’at Tahrir al-Sham. La diffusione delle immagini relative alla distruzione del santuario alawita di Sayyid Abi Abdullah Al-Hussein bin Hamdan Al-Khusaibi e all’uccisione dei suoi custodi da parte dei miliziani di HTS hanno generato un’ondata di proteste a Qardaha e Homs, a cui il nuovo governo siriano ha risposto aprendo il fuoco. Si registrano diversi feriti e almeno una vittima. A Homs, il 25 dicembre, è stato imposto il coprifuoco, seguito da rastrellamenti nei confronti degli alawiti, etichettati come sostenitori del vecchio regime. In rete sono apparsi diversi video ritraenti uomini della minoranza religiosa calpestati dai miliziani o costretti a terra ad abbaiare.
A Suqaylabiyah, una città a maggioranza ortodossa, degli uomini incappucciati hanno bruciato un albero di Natale, scatenando il malcontento della popolazione locale e dei cittadini cristiani di Damasco, che sono scesi nelle strade della capitale. Risalire con certezza ai responsabili non è semplice, dal momento che la maggior parte delle notizie che attualmente filtrano dalla Siria sono veicolate da canali filoturchi. Le strade portano o ai miliziani di HTS o a gruppi ribelli al di fuori del loro controllo (secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i soldati erano stranieri del gruppo jihadista Ansar al-Tawhid). Il primo caso comporterebbe la caduta della maschera di coloro che sono stati ribattezzati “jihadisti moderati”, il secondo invece alimenterebbe, a dispetto della propaganda, l’immagine di un Paese tutt’altro che pacificato, anche nelle aree descritte come sotto il controllo del nuovo regime.
Proteste contro il nuovo governo si sono registrate anche in altre città dove la comunità alawita è particolarmente radicata, come le città costiere di Tartus e Latakia, colpite a inizio mese da pesanti attacchi israeliani. In risposta alle mobilitazioni, l’HTS e l’SNA hanno effettuato arresti di massa, aumentando la presenza dei miliziani nella regione costiera.
L’effettiva sovranità della nuova Siria è compressa dalla Turchia, sponsor dell’offensiva che in due settimane ha rovesciato Assad. In queste ore il presidente Recep Tayyip Erdoğan sta giocando un’importante partita in Siria, contro il Rojava e l’esperienza democratica realizzata da curdi, arabi, assiri e altre minoranze, che nel 2015 hanno fondato le proprie forze armate: le Forze Democratiche Siriane (SDF). Domenica scorsa al-Jolani, leader di HTS, ha dichiarato che le armi nel Paese, comprese quelle detenute dalle fazioni presenti nell’area delle SDF, passeranno sotto il controllo statale.
Ad arginare, almeno per il momento, l’avanzata turca e dei suoi proxy è la resistenza curda, a cui si aggiunge la presenza militare degli Stati Uniti, che martedì scorso ha dispiegato mezzi e uomini a Kobane, nel tentativo di congelare quello che è a tutti gli effetti un attacco annunciato da parte della Turchia.
Sul campo siriano si fronteggiano dunque due membri della NATO da tempo ai ferri corti. Una situazione delicata – che da un lato vede la potenza egemone degli ultimi trent’anni minacciata dal mondo multipolare e dall’altro un attore regionale con aspirazioni imperialistiche via via crescenti – arricchita da una certa imprevedibilità data dall’imminente insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca.
La repressione a suon di violenze, torture ed esecuzioni contro le minoranze da parte dei nuovi padroni della Siria è inversamente proporzionale alla critica (sostanzialmente nulla) nei confronti di Tel Aviv, che oltre ad aver occupato un altro pezzo di Golan ha sferrato centinaia di attacchi su edifici civili e infrastrutture strategiche con l’obiettivo di rendere militarmente inoffensiva la Siria.
L’accondiscendenza verso lo Stato ebraico è evidentemente una delle clausole che al-Jolani deve rispettare per il sostegno dell’Occidente. In occasione di un incontro «dai segnali positivi» con una delegazione statunitense, il leader di HTS ha visto rimossa dalla propria testa una taglia di 10 milioni di dollari posta nel 2017 da Washington. Gli Stati Uniti sorridono per la caduta di Assad e l’indebolimento dell’Asse della Resistenza, l’Unione Europea si sfrega le mani all’idea di un freno alla migrazione siriana. Poco importa ai paladini della giustizia e della democrazia se tutto ciò avverrà sulla pelle di milioni di persone.
[di Salvatore Toscano]
L’ imbecillità degli umani è incommensurabile. Unica (minima) consolazione è che si affrontano due “soci” del club Nato. Ma così è, di questi tempi bisogna accontentarsi.