La crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, aggravata dal freddo invernale che si abbatte su una popolazione già decimata dalla guerra, continua a mietere vittime innocenti. Dopo gli oltre 15mila bambini uccisi dai raid dell’esercito israeliano, infatti, nel giro di una sola settimana sei neonati palestinesi sono morti per ipotermia. L’ultimo tragico caso riguarda Jumaa Al-Batran, di appena un mese, morto ieri mattina, e suo fratello gemello Ali, deceduto stamane dopo aver lottato per sopravvivere in terapia intensiva. I due bimbi vivevano a Deir al-Balah, nella parte centrale di Gaza. Vicende che testimoniano l’emergenza devastante – imposta dal governo israeliano con attacchi mirati su abitazioni e ospedali di tutta la Striscia – che devono affrontare centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi, ammassati in tende di fortuna mentre le temperature continuano ad abbassarsi.
I gemelli morti a poche ore di distanza erano nati prematuri di un mese e avevano trascorso rispettivamente solo uno e due giorni nell’incubatrice dell’ospedale, che, come molte altre strutture sanitarie di Gaza, opera a capacità ridotta e sotto costante pressione a causa dei continui bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. La famiglia vive in una tenda esposta al freddo, con temperature che di notte scendono sotto i 10 gradi Celsius. «Siamo in otto e abbiamo solo quattro coperte», aveva dichiarato ieri il padre Yehia, raccontando come il piccolo Jumaa sia stato trovato con la testa «fredda come il ghiaccio». «Non c’è elettricità. L’acqua è fredda, e non c’è gas, riscaldamento o cibo. I miei figli stanno morendo davanti ai miei occhi, e a nessuno importa. Jumaa è morto, e temo che suo fratello Ali possa seguirlo», ha aggiunto l’uomo. Oggi è arrivata la conferma che anche il secondo neonato non ce l’ha fatta. Nel frattempo, le autorità sanitarie locali hanno confermato che almeno altri quattro neonati, di età compresa tra 4 e 21 giorni, sono morti negli ultimi giorni a causa del freddo intenso. Le forze israeliane hanno sfollato quasi tutti i 2,3 milioni di residenti di Gaza, costringendo decine di migliaia di loro ad ammassarsi in logore tendopoli lungo la costa meridionale di Gaza, dove le condizioni meteorologiche sono fortemente sfavorevoli. «Le tende non proteggono né dalla pioggia né dal vento» ha spiegato Marwan al-Hamas, capo degli ospedali da campo di Gaza. Le strutture sanitarie e le organizzazioni umanitarie faticano a rispondere all’emergenza, ostacolate dai bombardamenti israeliani, dalla distruzione delle infrastrutture e dalle restrizioni all’arrivo degli aiuti.
Il conflitto ha causato oltre 45mila morti tra i palestinesi. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, lasciando milioni di persone prive di rifugi sicuri. Le persone non muoiono però solo a causa delle bombe: mentre il freddo aumenta i rischi di malattie e decessi, infatti, la fame e la mancanza di cure aggravano ulteriormente la tragedia. Negli ultimi giorni, L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) ha condannato «l’escalation» israeliana a Gaza, sottolineando che gli attacchi mirati verso scuole e ospedali siano diventati «comuni». Al contempo, il gruppo umanitario Oxfam ha denunciato che solo 12 camion hanno distribuito cibo e acqua nel nord della Striscia di Gaza negli ultimi due mesi e mezzo. Lo scorso 23 dicembre, Famine Early Warning System Network, organizzazione istituita nel 1985 dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), ha pubblicato un rapporto sulla situazione di «emergenza carestia» nel Nord di Gaza dove ha affermato che «sulla base del collasso del sistema alimentare e del peggioramento dell’accesso all’acqua, ai servizi igienico-sanitari e ai servizi sanitari», nel prossimo gennaio nell’area moriranno di fame e disturbi correlati tra le 2 e le 15 persone ogni giorno. L’ambasciatore USA in Israele, Jack Lew, è però intervenuto prendendo le difese dello Stato Ebraico, affermando che il report si baserebbe su «dati obsoleti e imprecisi», poiché la popolazione civile presente nel Nord di Gaza sarebbe oggi «compresa tra 7.000 e 15.000 persone, non tra 65.000 e 75.000 che è la base di questo rapporto». Ammettendo, implicitamente, che la parte settentrionale di Gaza è sottoposta a pulizia etnica: all’inizio dell’assedio israeliano su Gaza, infatti, il Nord della Striscia vedeva una popolazione di circa 400.000 persone. Dopo la pubblicazione, il rapporto è stato ritirato.
[di Stefano Baudino]
È vergognoso che l’UE e gli USA accettino questo genocidio