Una causa lanciata, e vinta, dal colosso delle borse Louis Vuitton contro uno stilista coreano di nome Lee Kyung-han potrebbe segnare uno spartiacque nel mondo della moda indipendente, che si muove attraverso i concetti del riutilizzo creativo. L’Alta Corte per la proprietà intellettuale di Seul ha infatti condannato Lee a pagare 15 milioni di won (l’equivalente di circa diecimila euro) al marchio francese per aver riutilizzato parti di borse griffate per creare nuove produzioni. Una sentenza che condanna quello che, nel mondo della moda, si chiama “upcycling”, ossia il processo creativo che mira a ridare vita a tessuti di scarto trasformandoli in nuovi prodotti di qualità uguale o superiore all’originale. Un processo che si basa spesso sull’utilizzo di resti o parti di prodotti dei marchi dell’alta moda.
Il caso Lee e la pratica dell’upcycling
Dal 2017 al 2021 il designer Lee Kyung-han si è dedicato alla creazione di borse e accessori partendo da materiali Louis Vuitton usati e forniti dai clienti stessi. Per chi si occupa di customizzazioni e trasformazione di prodotti già esistenti, partire da materie prime usate, scartate o semplicemente non più in linea con le esigenze dei clienti (magari per taglia o gusti personali), è una pratica comune. Tra gli oggetti e gli abiti a disposizione, spesso capitano anche quelli di grandi marchi della moda e del lusso. In questo caso, però, il colosso francese non ha apprezzato le rielaborazioni di Lee, accusandolo di aver creato prodotti che potevano essere confusi come originali dai consumatori, poiché presentavano il logo del marchio. Gli avvocati di Lee hanno sostenuto che si trattasse di una causa infondata, in quanto gli accessori in questione erano stati interamente riprogettati, cambiando spesso funzione e forma. Una tesi difensiva che è stata tuttavia rigettata dalla corte, con una doppia aggravante: quella del prezzo, secondo cui i prodotti «vengono venduti a prezzi elevati nel mercato dell’usato e hanno valore come oggetti indipendenti», e quella secondo cui, essendo realizzati così bene da sembrare nuovi, potevano trarre in inganno i consumatori, che «possono confondere i prodotti con quelli realizzati da Louis Vuitton». È scattata quindi la richiesta di risarcimento danni, oltre a un provvedimento che impedisce a Lee di utilizzare nuovamente materiali del marchio francese per le sue creazioni.
La dottrina della prima vendita
Gli avvocati dello stilista hanno già annunciato ricorso, dichiarando: «Questa è una sentenza irragionevole che ignora i diritti dei consumatori e criminalizza di fatto tutte le forme di riutilizzo dei prodotti, dalle modifiche di vestiti e borse alla personalizzazione delle auto». La risposta dei legali di Lee chiama in causa una norma internazionalmente riconosciuta: la dottrina della prima vendita. Si tratta di un concetto giuridico che affonda le sue radici agli inizi del ‘900 (1908, Stati Uniti, caso Bobbs-Merrill Co. contro Strauss) e che svolge un ruolo fondamentale nel mondo della proprietà intellettuale e del commercio. La norma tutela il diritto delle persone a disporre dei beni acquistati legalmente senza violare i diritti del proprietario del marchio o del copyright, rivendendoli, prestandoli o modificandoli.
In pratica, una volta che il titolare del copyright vende una copia del proprio prodotto o opera, perde il controllo sulle vendite successive: una volta tratto il profitto iniziale, il marchio non può continuare a “spremere lo stesso limone” all’infinito. In questo modo si tutelano sia i diritti dei consumatori, che possono disporre dei prodotti per cui hanno pagato come meglio credono, sia il libero commercio nei mercati secondari (come i negozi dell’usato), bilanciando gli interessi tra i diritti di chi crea il prodotto e quelli di chi lo acquista.
Come per ogni norma, esistono sfumature e casi specifici, soprattutto quando si entra nel campo dei prodotti digitali. Tuttavia, per la merce con marchio registrato, i proprietari possono controllare «la qualità e la reputazione associata al marchio», intervenendo sulla rivendita di prodotti contraffatti o scadenti. La domanda sorge dunque spontanea: il processo creativo di rielaborazione di un prodotto da parte di un designer può essere davvero equiparato a una banale contraffazione?
A giudicare dalla sentenza, sembrerebbe proprio di sì. Questo allarma tutto il settore che si occupa di trovare soluzioni creative per una moda circolare, considerando i danni dovuti alla sovrapproduzione causata dai marchi in questione. Il caso di Lee non è isolato, e le battaglie legali dei grandi marchi contro i designer impegnati nell’upcycling stanno spuntando come funghi. Le grandi aziende del lusso e dell’abbigliamento sportivo stanno cercando di reprimere i tentativi «da parte di terzi di allinearsi impropriamente con – e trarre profitto da – l’attrattiva di questi marchi noti facendo un uso non autorizzato dei loro marchi di fama mondiale».
Oltre a Louis Vuitton, anche Chanel, Nike, MSCHF e Rolex hanno avviato cause simili. Questa scelta di battagliare contro singoli progettisti e piccoli marchi indipendenti solleva sospetti: più che proteggere il proprio marchio, sembrerebbe dettata dalla paura che le persone possano preferire affidarsi a un designer emergente per modifiche o restauri di oggetti esistenti, invece di spendere cifre astronomiche (e spesso immotivate) per prodotti dal vago sentore di lusso.
Se tutti i brand dovessero iniziare a intentare cause contro gli upcycler, si rischierebbe di mettere in pericolo un’arte che rappresenta anche una delle soluzioni più auspicabili per una moda circolare a basso impatto, in cui l’esistente non viene buttato ma diventa una risorsa e una materia prima.
[Marina Savarese]
La Corea del Sud ha un sistema giuridico pari a Corleone in mano al padrino, non fatemi perdere tempo sulle loro sentenze.