Nel giugno dello scorso anno, la Camera dei Rappresentanti statunitense aveva votato a favore di un disegno di legge (l’Illegitimate Court Counteraction Act) che prevedeva l’applicazione di sanzioni e misure restrittive contro i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) che sono «impegnati in qualsiasi tentativo di indagare, arrestare, detenere o perseguire qualsiasi» politico statunitense o «persona protetta» dal Paese che come gli USA non riconosca la CPI. La decisione era giunta dopo che la Corte aveva annunciato l’intenzione di emettere mandati d’arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanuahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, concretizzata lo scorso 21 novembre. Il 9 gennaio, la proposta di legge è stata approvata dalla Camera in via definitiva, con una votazione di 243 (198 repubblicani, 45 democratici) a 140. Il tutto nonostante gli Stati Uniti non siano membri della CPI e non ne riconoscano la giurisdizione.
La Commissione per gli Affari Esteri ha spiegato che la decisione è stata presa in ragione della «ingiustificata presa di mira di Israele» da parte della Corte, alludendo al fatto che le sue azioni potrebbero «ostacolare il ritorno degli ostaggi americani detenuti da Hamas». Nel suo discorso, il presidente della Commissione ha duramente criticato gli attacchi al «grande alleato» dell’America, arrivando a riproporre la notizia (mai confermata da alcuna prova e con ogni probabilità del tutto falsa) dei bambini decapitati da Hamas. Dopo oltre 15 mesi di bombardamenti e uccisioni non stop, oltre 46 mila morti accertati (una cifra che secondo molte organizzazioni è molto inferiore alle uccisioni reali), dei quali oltre il 70% donne e bambini, il Commissario ha riferito che la risposta Israeliana all’attacco di Hamas è stata condotta «con la massima moderazione che la guerra può consentire». «Ciò che la CPI sta facendo, con i suoi mandati d’arresto, è legittimare le false accuse di crimini di guerra israeliani per fermare il successo schiacciante delle operazioni militari israeliane».
Sono numerosi gli organi internazionali che hanno reagito con preoccupazione al voto statunitense. Oltre 70 organizzazioni della società civile e religiose hanno inviato la scorsa settimana una lettera aperta alla Commissione e all’amministrazione Trump per chiedere di sospendere la votazione. Tre esperti del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU hanno invitato il Senato a non appoggiare la misura, commentando come sia «scioccante» che un Paese «che si considera un campione dello Stato di diritto» cerchi di ostacolare le attività di un tribunale indipendente, promuovendo una «cultura dell’impunità». In una dichiarazione inviata a Reuters, la CPI ha riferito di aver preso atto con preoccupazione della votazione, dichiarando di «condannare fermamente tutte le azioni volte a minacciare la Corte e i suoi funzionari, a minare la sua indipendenza giudiziaria e il suo mandato e a privare della giustizia e della speranza milioni di vittime di atrocità internazionali in tutto il mondo».
Non è la prima volta che gli Stati Uniti minacciano la CPI di sanzioni. Nel 2020, infatti, gli USA avevano già emesso sanzioni ad personam dopo l’apertura di indagini sui crimini di guerra commessi in Afghanistan. Tuttavia, il segretario di Stato Anthony Blinken non aveva esitato un momento ad esortare tutti gli Stati firmatari dello Statuto di Roma (ovvero quelli che riconoscono l’autorità della CPI) a concedere pieno appoggio alla Corte quando furono emessi i mandati di arresto contro il presidente russo Vladimir Putin. La decisione statunitense non segna che un’ulteriore fallimento delle leggi internazionali e degli organi sovranazionali, messo più che mai a nudo dalla guerra in Medio Oriente. E rivela ancora una volta come, senza volontà politica, queste non siano altro che carta straccia.
[di Valeria Casolaro]