sabato 11 Gennaio 2025

“Sul piatto azzurro del cielo”, una poesia di Sergej A. Esenin (1920)

Sul piatto azzurro del cielo
C’è un fumo melato di nuvole gialle,
La notte sogna. Dormono gli uomini,
L’angoscia solo me tormenta.

Intersecato di nubi,
Il bosco respira un dolce fumo.
Dentro l’anello dei crepacci celesti
Il declivio tende le dita.

Dalla palude giunge il grido dell’airone,
Il chiaro gorgoglio dell’acqua,
E dalle nuvole occhieggia,
Come una goccia, una stella solitaria.

Potere con essa, in quel torbido fumo,
Appiccare un incendio nel bosco,
E insieme perirvi come un lampo nel cielo.

La poesia fotografa impressioni che dai dati di natura rimbalzano nell’influenza, illusoria e fantastica, che ne vive il poeta.

Dal Romanticismo in poi, per la persona che si fa artista, è diventata estetica una speciale solitudine, anche quella dunque cantata nei versi visionari di Esenin, il quale pensa, alla maniera distopica di Fahrenheit 451 (Ray Bradbury, 1953), di bruciare coi suoi versi, perché ardenti sono le sue parole e perché dopo di lui, senza di lui, tutto cambierà.

Nel romanzo di Bradbury si bruciano le case che illegalmente contengono libri, perché l’immaginario era ritenuto pericoloso, incontrollabile, incomprensibile, consegnato nelle mani di gente pericolosa.

È necessario dunque soffermarsi sul carattere aspro, provocatorio, rivoluzionario dei versi, come dopo sarà con Majakovskij e Marina Cvetaeva, la quale cantava: “Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno – scopre la legge della stella e la formula del fiore”.

In Anna Achmatova, poi, gli echi della rivoluzione sovietica, trasformandosi in poesia (Anno Domini XXI, 1923), avranno gli stessi accenti brucianti di Esenin, quasi si trattasse di fragorosi eventi naturali: “Quell’agosto, come una gialla vampata/ che si facesse breccia per entro al fumo,/ quell’agosto sopra di noi s’era levato/ come un serafino di fuoco./… Noi due, il soldato e la ragazza/ entrammo in un gelido mattino”.

La natura diventa alleata del poeta, si muta in linguaggio, secondo codici di cui al poeta spetta una speciale comprensione. Perché soltanto chi è poeta, come osservava Roman Jakobson, è capace di trasformare la realtà in simbolo e poi di viverla nuovamente sotto questa forma.

[di Gian Paolo Caprettini]

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