CAMPO PROFUGHI DI NUR SHAMS, TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Strade sventrate, case a pezzi, esplose, bruciate. Vari pali della luce abbattuti hanno tolto l’elettricità a una parte del campo. Il sistema idrico avrà bisogno di settimane prima di essere restaurato a causa dei danni subiti, mentre centinaia di famiglie rimangono senza acqua. Il campo profughi di Nur Shams sembra un campo di battaglia, e lo è stato, ancora una volta, appena qualche giorno fa: i fori dei proiettili sono ben visibili sulle facciate di molte case e le ferite ancora aperte sulle almeno 14 mila persone che lo abitano. Una donna anziana siede su uno sgabello davanti a una casa semi-distrutta: l’intera parete è crollata, quello che forse era un salotto dà ora sulla strada principale. «Cosa dobbiamo fare? Hanno distrutto tutto di nuovo», chiede, gli occhi pieni di dolore. «Vengono, uccidono, distruggono tutto. Cosa dobbiamo fare?». Poche parole mentre camminiamo nel fango della piazzetta, dove ormai la strada è solo un ricordo.
Le “piccole Gaza”
«Quella era una farmacia, quella una struttura dell’UNRWA» dice Ahmad, un abitante del campo che ci accompagna indicando due edifici gravemente danneggiati. E ancora: case senza un pezzo di parete, pilastri rotti che sembrano reggere per miracolo il piano soprastante. Le macerie sono accumulate al centro della piazza, mischiate alla terra e a pezzi di asfalto dei raid precedenti. Intanto, intorno si vedono famiglie al lavoro: chi aggiusta una porta, chi mette del nylon a una finestra, chi sta già ricostruendo il muretto distrutto con mattoni e cemento. Un ragazzo sta rimettendo in piedi il suo baracchino di legno da cui vendeva il caffè. «E se me lo distruggono un’altra volta, lo ricostruirò di nuovo» dice, quasi per confermare la forza e resistenza di quel popolo sotto occupazione da ormai 76 anni.
I campi profughi di Tulkarem sono sotto attacco da prima del 7 di ottobre, anche se le incursioni sono aumentate a dismisura in quantità e violenza da quella data. I raid israeliani sono cominciati a marzo del 2023, dietro la motivazione ufficiale di smantellare le basi della resistenza armata palestinese. Ma le ragioni sono ben altre, ci spiega l’uomo che ci accompagna per il campo. «Vogliono distruggere i campi profughi per eliminare l’idea stessa di un possibile ritorno», afferma Ahmad. «Senza più rifugiati Israele è come se fosse legittimato a stare su quelle terre, che appartenevano ai nostri nonni. È per questo motivo che stanno anche cercando di smantellare e sostituire l’UNRWA», racconta. In Cisgiordania sono registrati 912.879 rifugiati; circa un quarto di loro vivono nei 19 campi profughi ufficiali, costruiti dall’agenzia UNRWA a seguito della Nakba, la “Catastrofe”, ossia l’esodo forzato di 700 mila palestinesi dalle terre su cui è stato poi fondato Israele.
«Vogliono obbligare la gente ad andare via, ad abbandonare i campi. Per questo distruggono le infrastrutture, le case, le strade, tutto.» E continua. «Questi raid sono anche punizioni collettive verso i residenti dei campi, accusati di ospitare la resistenza armata. Cercano di metterci gli uni contro gli altri», dice. «Ma non funziona» .
Sono un’ottantina gli attacchi che i due campi profughi di Tulkarem hanno subito dal 2023 ad oggi. Migliaia le case danneggiate, centinaia quelle distrutte o rese inagibili. Molte famiglie di entrambi i campi hanno dovuto andarsene perché non avevano più da dove dormire. «Il nostro negozio di famiglia è stato attaccato due volte», dice Ahmad. «Per ora l’abbiamo chiuso, perché non possiamo permetterci di perdere nuovamente soldi» .
Israele porta avanti la stessa tattica di distruzione delle infrastrutture, dei mezzi di sostentamento e delle abitazioni dei palestinesi nei campi profughi di varie città del nord della Cisgiordania. Ma i campo rifugiati di Tulkarem, insieme a quello di Jenin – colpito e assediato anche dalle forze di polizia dell’Autorità palestinese – vincono senza rivali il primo posto sul podio. Le “piccole Gaza”.
Entriamo nelle vie più interne del campo. Qui dei teli neri sulle nostre teste coprono la visuale del cielo. «Sono contro i droni. Spesso attaccano buttando bombe così», racconta Ahmad. Poco più avanti, mi ferma davanti a un edificio gravemente danneggiato. Sulla parete di fronte molti manifesti di quelli che qui vengono considerati martiri, i caduti per mano di Israele. «Qui nel marzo scorso hanno lanciato un missile in un attacco aereo, in pieno giorno. Hanno ucciso 12 persone. Il più piccolo aveva 11 anni. Stavano giocando a calcio». Nur Shams Camp significa “la luce del sole”, perché sorge su una delle terre che per prima è baciata dai raggi dell’alba, ma sembra che solo il buio del dolore lo irradi negli ultimi mesi. Continuiamo a camminare per le vie strette di quel campo, nato con le tende UNRWA nel 1951 e diventato ad oggi una delle zone più popolose della città, con il suo groviglio di case, negozi, stradine. Un uomo si ferma a salutare Ahmad, lui ci è cresciuto tra queste vie, conosce tutti. «Hanno appena arrestato suo figlio nell’ultimo raid», mi dice indicandolo con un cenno mentre si allontana. «Ha solo sedici anni». Qua sembra che tutti abbiano un familiare morto per mano israeliana o rinchiuso nelle prigioni di Tel Aviv.
La maggior parte delle persone che abitano nel campo sono discendenti dei profughi cacciati dalle loro case nella zona di Haifa nel 1948: le famiglie si conoscono da generazioni, i legami di solidarietà e mutuo appoggio sono la sola cosa che ne hanno permesso la sopravvivenza da ormai 78 anni. «Qui le persone si aiutano. Quando ci sono i raid, chi può scappa, e viene ospitato fuori dal campo. Anche per ricostruire, tutti collaborano» . Ma sta diventando troppo. Troppi danni, troppa devastazione. A ogni raid.
Un gruppetto di giovani beve un caffè in piedi davanti alle macerie di una casa completamente crollata. Uno di loro ha al collo un M-16, tra le armi più usate dalla resistenza contro l’esercito di Tel Aviv. «Questa era casa mia», dice uno dei tre ragazzi indicando l’edificio abbattuto nell’ultimo raid. «Hanno messo una bomba dentro e l‘hanno fatto esplodere». Anche la casa accanto è chiaramente pericolante. Ma una donna apre la porta che ormai dà nel vuoto, non essendoci più le scale, e con un saluto dice qualcosa ai giovani in arabo. Sulle pareti intorno, i segni del boato si vedono ancora: vetri delle finestre scomparsi, intonaci danneggiati dai pezzi di casa volanti. «I jesh (i militari israeliani) hanno paura a confrontarsi con noi», dice il ragazzo armato. «Non vogliono affrontarci frontalmente. Preferiscono buttare le bombe e attaccare con i droni». Accende una sigaretta. «Loro hanno tutte le armi e le tecnologie più avanzate, aiutati dall’America e dall’Europa. Noi, abbiamo solo questi» dice mostrando il fucile.
L’ultimo palestinese ucciso di Nur Shams Camp si chiamava Mahmoud Mohammad Khaled, aveva 22 anni. L’hanno ucciso nella notte del 24 dicembre, durante il raid natalizio. Aveva provato da solo a difendere le case del suo quartiere sotto attacco, mentre venivano invase dai militari di Tel Aviv. «E’ stato un eroe. Hanno dovuto mandare un drone perché non riuscivano a colpirlo», racconta uno di loro. «Eliminato un terrorista», dirà Israele. Per definire un ragazzo che difendeva la sua casa dall’invasione di un esercito straniero mentre distruggeva il quartiere dove vive.
Incontriamo altri giovani radunati intorno un piccolo fuoco. Alcuni sono membri della resistenza, gli M-16 appesi lungo il fianco. «A lui hanno ucciso due fratelli. Per questo ha preso le armi», dice Ahmad, accennando a un ragazzo che avrà poco più di vent’anni, uno sguardo molto serio e profondo. Un ragazzo ci porta a vedere la sua casa, o meglio, ciò che ne resta. «Attenzione, è pericolante» dice. I mobili che restano sono mezzo bruciati, una parte della casa è crollata e l’altra deve aver preso fuoco. Il soffitto e le pareti sono tutte nere di fuliggine. «Hanno messo una bomba e l’hanno fatta esplodere quando se ne sono andati», ci dice. «Si era appena sposato!» aggiunge un altro ragazzo, indicando il proprietario di casa. «Ma c’è una parte del campo che è la più distrutta di tutti. È come Gaza», dice. Andiamo. Usciamo dalla zona dei teli, nemmeno duecento metri e si apre uno scenario apocalittico. Non c’è vita in quella zona di case. Non c’è nessuno, e non c’è più ragione per starci. È tutto distrutto: saranno almeno una decina di edifici completamente devastati. Mura distrutte, case crollate, la strada di terra e fango ha ancora i segni freschi dei D9 che l’hanno calpestata. «Questa era una scuola dell’UNRWA» mi dice Ahmad, indicando un edificio a pezzi, completamente inagibile. «E qua hanno fatto saltare una casa per poter entrare coi mezzi direttamente fino alla strade interne» racconta il nostro nuovo accompagnatore.
Davanti a noi, una via di melma e terra inizia proprio dove c’è il buco di una casa tra gli edifici. La gente è stata obbligata ad andare via. «Una piccola Gaza!» dice ancora il ragazzo.
Mentre riprendiamo la strada principale, ci avvicina una donna, vuole parlare. «Israele very bad», dice alzando un dito come a sottolineare il peso delle sue parole. «America is very bad. Germania, Francia… kullo, kullo!». Tutti, tutti, dice. È arrabbiata con i governi europei, con gli aiuti americani a Israele, con la legittimazione che il mondo occidentale dà allo stato sionista. Lei ha perso due figli, uccisi per mano di Tel Aviv. «E’ madre di due martiri», ripete il nostro traduttore. Ma oltre ad avergli portato via due figli, la violenza di Israele continua a devastare la sua vita. Con gli aiuti occidentali. Di nuovo, nessuna parola.
“Finchè ci sarà occupazione ci sarà resistenza”
Quando ci spostiamo nel campo rifugiati di Tulkarem, la famiglia di Qusay Okasha ci dà il benvenuto con la consueta gentilezza palestinese, che ci disarma come sempre. Sono tutti radunati in salotto: madre, padre, due sorelle con i figli e un marito, il fratello. Almeno cinque bambini girano tra le braccia dei vari famigliari o zampettano tra la nostra e l’altra stanza, in quella casa troppo piccola per contenere la numerosa famiglia. Ci offrono il caffè, poi una bottiglietta d’acqua a testa e ci sporgono un vassoio pieno di datteri, avvolti uno a uno in un tovagliolo di carta. I datteri in quel modo vengono sempre offerti dalle famiglie in lutto ai visitatori.
Qusay aveva 24 anni. La sua foto, un M-16 stretto tra le mani e una bandiera bianco e nera dietro, è appesa al muro di fronte a me. Era un fighter Qusay, da vario tempo. L’hanno ucciso il 24 dicembre durante il raid di Natale. Nove persone sono morte in quelle 45 ore di incursione per mano dei militari, tra cui due donne e un ragazzo di 17 anni. Come a Nur Shamps Camp, decine di case sono state danneggiate, le strade distrutte, gli impianti idrici ed elettrici messi fuori uso. Il totale degli immobili compromessi o demoliti nel solo campo rifugiati di Tulkarem ha raggiunto così le 1200 unità.
«Mio figlio ha voluto fare la sua parte in quello che sta accadendo», comincia la madre. «Aveva preso questa scelta quando ha visto che la situazione qua continuava a peggiorare. Poi, con Gaza, e gli attacchi ai campi profughi… Era ricercato dai servizi israeliani; dopo che la maggior parte dei suoi amici sono stati uccisi, aveva deciso di non nascondere più la sua identità», dice. «Quella notte, quando è iniziato il raid, avrebbe potuto andare via, gli avevano offerto di scappare da qua. Ma lui ha rifiutato. Ha deciso di rimanere, per difendere il campo». Gli occhi di tutti sono cerchiati dalla tristezza, ma l’orgoglio e la profonda accettazione del destino del figlio la rendono forse più sostenibile. «Dopo che è diventato un martire, i jesh [militari israeliani, ndr] sono venuti qui, in questa casa, e hanno provato a entrare. Hanno sparato contro i muri,» continua il padre.
La madre ci indica il divano – un materasso sopra una struttura di ferro – dov’è seduta. «Dormiva sempre qui. E questo era il suo cuscino» lo prende tra le mani, lo accarezza. Poi va a cercare una coperta e ce la mostra. «Qui c’è il suo sangue… quando è stato martirizzato i suoi amici hanno trasportato il suo corpo in questa coperta…» l’avvicina al volto, l’annusa. «Gli ho chiesto di portarmela indietro, volevo avere qualcosa per ricordare il suo odore… così è come se fosse vicino a me…» le lacrime iniziano a scorrere sulle sue guance. «Siamo orgogliosi di lui. E tutti lo amavano. Mio figlio non è il primo e non sarà l’ultimo martire».
«Ora stanno attaccando i campi, li stanno provando a distruggere per obbligare le persone ad andarsene, a lasciarli. Noi siamo nati e cresciuti qui: non ce ne andremo mai», riprende il padre. E ancora. «Finché ci sarà occupazione, ci sarà resistenza. Mio figlio non è il primo e non sarà l’ultimo martire» dice, ripetendo la frase appena pronunciata dalla moglie.
«Quando tornate nei vostri Paesi, raccontate la sofferenza che i palestinesi stanno vivendo, anche in questi campi. Parlate della vita dei campi profughi palestinesi. Io ero testimone della prima intifada, e anche della seconda intifada. E vi dico: la resistenza non finirà, finché ci sarà l’occupazione».
[testo e immagini di Moira Amargi, corrispondente dalla Palestina]