Il clima politico in Kenya è teso da ormai più di 6 mesi da quando, lo scorso giugno, l’esecutivo guidato da William Ruto aveva approvato in fretta e furia una legge di bilancio che prevedeva un forte innalzamento delle tasse sui beni di prima necessità. Da allora, forti proteste si sono scatenate in tutto il Paese, animate soprattutto dalle fasce più giovani della popolazione, che risentono in maniera particolarmente grave della crisi economica. Se da un lato le manifestaizoni di piazza degli oppositori del governo sono state violentemente represse dalla polizia, con oltre sessanta i manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine, più di centotrenta quelli che sono scomparsi nel nulla in questi mesi.
La legge era stata approvata da Ruto mentre il Paese è alle prese con una crescente disoccupazione e diversi scandali di corruzione. L’obbiettivo del governo era quello di riuscire a racimolare 2,5 miliardi di dollari per provare a colmare il deficit di bilancio. Il Fondo Monetario Internazionale, che in primavera ha concesso un altro prestito a Nairobi, aveva posto come condizione per futuri prestiti l’innalzamento delle entrate statali. A questa approvazione sono seguiti giorni di grandi manifestazioni in tutto il Paese, fino ad arrivare all’assalto al parlamento di Nairobi, lo scorso 25 giugno. Le proteste hanno portato il presidente Ruto a ritrattare dichiarando che non avrebbe firmato la finanziaria.
Questo però non è bastato a placare la popolazione, soprattutto quella giovanile, che soffre molto la grave condizione economica del Paese e che è la spina dorsale delle proteste dette appunto della “GenZ”. Proprio i giovani, che avevano sostenuto la candidatura di Ruto, hanno continuato a chiedere le dimissioni del presidente, che provando a raffreddare gli animi aveva promesso una serie di misure atte ad aumentare l’occupazione e abbassare il costo della vita. Secondo Boniface Mwangi, foto giornalista e importate attivista keniano, queste promesse sono state disattese, portando allo scoppio di nuove proteste.
I movimenti di piazza sono stati repressi violentemente dalle forze di sicurezza con arresti arbitrari e uccisioni extragiudiziali. Da giugno ad oggi, secondo la Commissione nazionale per i diritti umani del Kenya, sono state rapite 82 persone, che si aggiungono ad altre 52 sparite prima di giugno. Solo nello scorso dicembre sono stati rapiti 13 giovani keniani e keniane, alcuni dei quali non sono ancora tornati a casa. La caratteristica che accomuna le persone scomparse, sono le loro posizioni critiche rispetto al governo. Queste azioni mirate delle forze di sicurezza hanno riacceso gli animi della popolazione che è nuovamente scesa in piazza per chiedere la fine dei rapimenti e il rilascio delle persone ancora scomparse.
I gruppi per i diritti umani keniani sostengono che dietro a queste azioni ci sia la polizia del Paese, ma le forze dell’ordine hanno negato ogni coinvolgimento e affermano di aver aperto delle indagini sulle sparizioni. Come la polizia molti esponenti di spicco dell’esecutivo, tra cui il nuovo ministro della sicurezza interna Kipchumba Murkomen, l’ispettore generale della polizia Douglas Kanja e il leader della maggioranza dell’Assemblea nazionale Kimani Ichung’wa hanno negato ogni coinvolgimento del National police service keniano (Nps). «Il National Police Service ci ha confermato di non aver arrestato nessuno Come governo, siamo d’accordo che l’Nps sotto il comando dell’ispettore generale sia indipendente e quindi non interferiremo con il loro lavoro» ha dichiarato Murkomen il 27 dicembre come riporta Africa Report. Addirittura Kimani Ichung’wa ha accusato i giovani rapiti di aver inscenato i loro sequestri per «rovinare l’immagine del governo». Una visione che non sembra essere la stessa del presidente Ruto che nel suo discorso di Capodanno, ha affermato: «Ci sono stati casi di azioni eccessive ed extragiudiziali da parte di membri dei servizi di sicurezza. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere che è in corso un giusto processo nelle istituzioni appropriate per garantirne la responsabilità». L’ammissione da parte del presidente è arrivata dopo che le famiglie dei giovani scomparsi hanno pregato il governo di liberare i propri cari.
Oltre ai rapimenti la repressione delle proteste è passata anche attraverso l’uccisione di diversi manifestati, sono più di 60 i morti durante le proteste da giugno, molti dei quali consegnati dalle forze dell’ordine agli obitori adducendo false cause di morte. Un’inchiesta di Reuters ha messo in luce questo modus operandi delle forze di sicurezza keniane durante le proteste di luglio. L’agenzia stampa britannica è riuscita a contattare alcuni ufficiali del Nps, che hanno confermato che la polizia keniana spesso inventa cause di morte “per incidente” per coprire gli omicidi commessi dagli agenti. Uno dei poliziotti impiegati durante le manifestazioni, ascoltato da Reuters, ha dichiarato di aver lavorato insieme ad agenti sotto copertura che si mescolavano alla folla per identificare i capi delle proteste e ottenere i loro numeri di telefono in modo da poterne tracciare gli spostamenti e organizzare i rapimenti.
Proprio riguardo i telefoni, Safaricom, la maggiore compagnia telefonica del Paese, è stata presa di mira dalle proteste a causa del suo presunto coinvolgimento nei rapimenti degli oppositori politici. Gli attivisti, secondo quanto riporta Semafor Africa, hanno accusato Safaricom di condividere dati dei suoi clienti con presunti agenti statali, consentendo loro di tracciare e catturare gli obiettivi. La compagnia telefonica a ottobre aveva negato ogni coinvolgimento nei rapimenti, dopo che una delle più importanti testate del Paese, The Nation, aveva accusato Safaricom di aver concesso alle forze di sicurezza un accesso praticamente illimitato ai dati in suo possesso.
Il Kenya si trova a dover affrontare una situazione sociale ed economica esplosiva, con il debito pubblico pari a circa il 70% del pil, un terzo della popolazione che vive sotto la soglia di povertà e l’occupazione sempre più bassa con le generazioni più giovani costrette a vivere di espedienti. A nulla sembra servire l’immagine internazionale che il governo di Ruto si sta dando, unico presidente accolto in visita ufficiale alla Casa Bianca da Biden e che dallo stesso a maggio ha guadagnato per Nairobi lo status di alleato non-Nato. Anzi l’affitto del jet privato per portare la delegazione a Washington, insieme alle nuove macchine per i diplomatici keniani e alla sfarzosa ristrutturazione del parlamento non hanno fatto altro che aumentare la rabbia della popolazione. La risposta a questa rabbia però ricorda tristemente il periodo buio del Kenya quando, sotto la guida del dittatore Daniel Toroitich arap Moi, le sparizioni di avversari politici e gli omicidi erano all’ordine del giorno. Oggi come ieri «stiamo attraversando un momento in cui dobbiamo convivere con la paura» ha dichiarato ad Ap una giovane manifestate, Orpah Thabiti.
[di Filippo Zingone]