Parlava seduto su un marmo
simile a rovina d’antico portale:
sterminato e vuoto a destra il campo
a sinistra scendevano le ombre dal monte:
“La poesia è ovunque. La tua voce
a volte incede al suo fianco
come il delfino che per poco ti accompagna
vascello d’oro nel sole
e poi scompare. La poesia è ovunque
come le ali del vento nel vento
che per un attimo hanno sfiorato le ali del gabbiano.
Uguale e diversa dalla nostra vita, come cambia
il volto di una donna che si è spogliata,
e tuttavia rimane uguale. Lo sa
chi ha amato: alla luce degli altri
il mondo implode; ma tu ricorda
Ade e Dioniso sono la stessa cosa”.
Disse, e imboccò la grande strada
che mena al porto di un tempo, ora inghiottito
laggiú fra i giunchi. Il crepuscolo pareva
per la morte di un animale,
cosí nudo.
Ricordo ancora:
viaggiava sulle coste della Ionia,
in vuote conchiglie di teatri
dove solo la lucertola striscia sull’arida pietra,
e io gli chiesi: “Un giorno torneranno a riempirsi?”
E mi rispose: “Forse, nell’ora della morte”.
E corse nell’orchestra urlando:
“Lasciatemi ascoltare mio fratello!”.
Ed era duro il silenzio attorno a noi
e non rigato nel vetro dell’azzurro.
Il teatro e il sogno, il mito e il mare. Nel mondo greco classico – quelle vestigia sono chiare oggi ancora – la realtà è leggermente sospesa dal suolo, un po’ come se le impronte di chi cammina a lui fossero visibili.
È la condizione del mito, perché in fondo ‘mythos’ in greco vuol dire anche realtà, nulla è estraneo al racconto, tutto si trasforma in storia, in parola, in ‘logos‘, quando sappiamo che vivere e mettere in scena si assomigliano e gli attori che seguiamo sul palco siamo noi stessi di fronte a specchi iridescenti.
Luigi Pirandello aveva tratto la sua ispirazione dai Greci con quella attualizzazione borghese, anzi quotidiana, con quella impronta ordinaria e straordinaria insieme, che i siciliani sanno imprimere, quasi una tradizione isolana del perdurare e del divenire che della Sicilia mi incanta ogni volta. Pirandello per cui tragedia e commedia si mascherano insieme in un oracolo sorridente.
Seferis, però, se penso al mare, e quindi alla morte, mi ricorda Ernest Hemingway che in un suo romanzo ricordava il suo primo viaggio di nozze sulle sponde francesi come l’avventura di un pesce che per amore risale la corrente.
E ne Il vecchio e il mare: «Vorrei poter dar da mangiare al pesce, pensò. È mio fratello. Ma devo ucciderlo e mantenermi forte per farlo». Per chi ha scritto Addio alle armi e Verdi colline d’Africa, la morte provocata è un tema immenso. Jorgos Seferis: «Dormo, ma il cuore veglia:/guarda in cielo le stelle, e la barra,/ l’infiorata dell’ acqua al timone».
Nel sogno non ci sono volti. Per Seferis la poesia è il giornale di bordo dell’ immaginario. La poesia per di più, dice Seferis, è oracolo e fraterna declamazione. A lui l’oracolo parla in modo deciso ma enigmatico e misteriosamente si sottrae al suo sguardo, come le parole della poesia che si sottraggono a una facile comprensione.
La poesia è delfino ed è vento, è eros e crepuscolo. Come il delfino e il vento ti accompagna per un po’, quasi fosse una preghiera che poi ti lascia al tuo destino. Come eros e crepuscolo canta la pienezza e il suo trascolorare ma non è prigioniera di sentimenti.
La poesia è tempo, per cui ciò che si brucia in un attimo, in un fuoco di significati, è anche proiezione illimitata dell’eterno, vale a dire di ciò di cui non conosciamo la misura. E che fa dire a Seferis che Dioniso e Ade si mescolano, appunto come amore e morte, come passione e fato.
Ecco perché la poesia è antidoto all’ipocrisia del potere. Perché la poesia consapevolmente illude, ti sottrae agli automatismi, e il potere (non il tuo potere, beninteso), invece, inganna.
[di Gian Paolo Caprettini]