giovedì 30 Gennaio 2025

Clima, colonialismo e moda: un intreccio pericoloso

Le promesse di regolamentazione del settore tessile sono state posticipate ancora una volta e, con esse, anche le prospettive di un cambio di direzione radicale nelle politiche di gestione delle imprese che operano in questo campo. Si rafforza così la convinzione che il sistema non abbia assolutamente intenzione di cambiare rotta, ma di continuare ad arricchirsi grazie allo sfruttamento delle terre e delle popolazioni che vi abitano, seguendo dinamiche coloniali predatorie già viste ripetersi più e più volte nel corso della storia.

Con il termine colonialismo si intende il controllo o il dominio di un Paese su un altro, che in genere comporta lo sfruttamento di risorse, terra e persone. Storicamente, le potenze coloniali, principalmente europee, hanno imposto un controllo economico, politico e culturale su regioni in Africa, Asia, Americhe e Pacifico. Il colonialismo, nei secoli, ha causato profondi impatti sociali e ambientali che hanno eredità ed impatti dannosi che durano ancora oggi. Pensare che sia una storia ormai passata sarebbe negare l’evidenza del fatto che le nazioni e le aziende più ricche continuano ad usare in modo sproporzionato le risorse e la manodopera dei paesi più poveri, (di solito quelli colonizzati in precedenza), per alimentare la crescita economica e compensare i propri impatti climatici. A trarre vantaggio da tutto ciò sono le nazioni più ricche, mentre quelle più povere vengono schiacciate dal peso del degrado ambientale e della disgregazione sociale, senza avere la possibilità di gestire le proprie risorse e le proprie politiche in maniera autonoma ed indipendente. Il modello coloniale, dunque, si ripete ad oltranza, perpetuando dinamiche di ingiustizia sociale, ambientale e climatica. 

In una società che tende ad alimentare costantemente il consumismo, l’industria della moda non ha fatto altro che cavalcare l’onda ed espandersi a macchia d’olio. Rapidamente. La velocità con cui cambiano le tendenze e la conseguente elevata domanda di moda implicano che in tutta la filiera, dall’estrazione alla produzione alla gestione dei rifiuti, le pratiche debbano essere rapide (e sconsiderate). Il modello di business è chiaramente insostenibile e lo sfruttamento è all’ordine del giorno, con un impatto notevole sia su coloro che vivono nel Sud del mondo sia sull’ambiente. I modi in cui l’industria della moda è responsabile del colonialismo climatico sono molteplici e si manifestano lungo tutta la filiera (non solo nella gestione pessima dei rifiuti).

L’estrazione delle materie prime, ad esempio, è uno dei primi momenti in cui l’industria approfitta in malo modo dei territori altrui. Molti materiali utilizzati nella produzione dei vestiti, come cotone e pelle, provengono da paesi del Sud del mondo. Queste nazioni sono costrette a sopportare il peso del degrado ambientale causato da pratiche agricole intensive, dalla deforestazione e dall’inquinamento delle acque. La coltivazione del cotone in Paesi come India e Uzbekistan, ad esempio, ha portato a gravi carenze idriche e all’impoverimento del suolo, colpendo le comunità locali che dipendono da queste risorse per sopravvivere. In Punjab, l’uso eccessivo di prodotti chimici ha portato a contaminazioni del suolo, del cibo e dell’acqua, causando gravi patologie tra la popolazione locale. 

Quello dei danni alle persone è un’altra questione frutto di una mentalità tipicamente coloniale, dove la vita di un essere umano di un’altra zona del pianeta sembra avere un valore mediamente inferiore. Lo sfruttamento del lavoro è una pratica costante di molti marchi di moda. Il colosso del settore Shein, per esempio, è già più volte finito sotto accusa per le condizioni di sfruttamento estremo alle quali vengono sottoposti i suoi “dipendenti”, in cambio di paghe misere. La manodopera proveniente da Paesi economicamente meno sviluppati come Vietnam e Bangladesh, vede i lavoratori, spesso donne e bambini, che affrontano condizioni di lavoro dure, lunghe ore e stipendi minimi. Le cattive condizioni di lavoro sono spesso accompagnate da una mancanza di regolamentazione ambientale, che porta allo smaltimento di rifiuti pericolosi e all’inquinamento tossico, con un impatto sproporzionato sulla vita delle comunità locali. 

Potrebbe finire qui, e già ci sarebbero danni sufficienti ai quali tentare di porre rimedio. Ma il colonialismo prende anche la forma di rifiuti: l’industria della moda scarica tonnellate di spazzatura in Paesi in via di sviluppo come Ghana e Kenya, dove va a costruire discariche a cielo aperto. Una delle più grandi al mondo si trova nel deserto di Atacama, in Cile, dove ogni anno arrivano fino a 60 mila tonnellate di abiti usati che vengono poi bruciati illegalmente, con l’inquinamento e la contaminazione ambientale che tutto ciò comporta. Il colonialismo dei rifiuti ricrea pericolosamente la dinamica dello sfruttatore e dello sfruttato. Non aiutano in tutto ciò pratiche come quella della “obsolescenza programmata” (ovvero della vendita di prodotti di seconda mano che già in partenza erano di scarsissima qualità e che quindi non sono destinati a durare, nella quale, di nuovo, Shein è campione in negativo), che trasformano anche il mercato dell’usato in niente di più che una mera operazione di greenwashing.

Comprendere queste connessioni serve ad avere chiaro il quadro della situazione, dove le aziende di moda scelgono in maniera conscia e consapevole la propria catena di fornitura, instaurando rapporti di stampo coloniale con i propri fornitori per poter sfuggire agli standard di sicurezza e trarre sempre più benefici (e proprio per questo sempre più ostili ad un cambiamento sostanziale). Purtroppo viviamo ancora in un mondo dove la vita e la dignità altrui vengono immortalate sull’altare del profitto

[di Marina Savarese]

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