Questo mio odio è un vento che schiaffeggia,
cieco ai bisogni, sordo ad ogni supplica,
disperde e confonde ogni parola
come ordini impartiti in mezzo alla bufera,
i soli atti a salvare questa nave
spacciata… Lo sfuggivo dentro quella taverna.
Nel vino rivivevo tre mie buone azioni:
quando detti a un pezzente gli ultimi due scellini
con cui poté comprarsi solo il caos che bramavo,
quando soccorsi con la morte lo scorpione ferito,
quando, a un bambino in lacrime, angosciato come me,
donai qualche speranza, sapendo che non c’era.
Quanto m’inorgoglii per le mie compassioni!
Pure ero anch’io quel torvo vinagrillo
che si pungeva a morte, nascosto dietro una pietra,
senza nessun messaggio, nella piana del mescal.
Così salvai solo me, anche se non per molto.
Tre buone azioni contro una vita di errori.
Quanti nodi egocentrici in questa abnegazione,
e non c’è soluzione che la croce!
«La mia persona si rispecchia nelle mie azioni», sembra affermare il poeta. Ma lo dice con accenti shakespeariani: «Ogni temperamento ha il suo diletto/ in cui trova una gioia sopra ogni altra», cantava Shakespeare in un sonetto, ma il mondo è a lui avverso e allora bisogna muoversi nelle fantasie, dove vive «l’anima profetica/ del vasto mondo sognante di cose a venire» (sonetti 91 e 106).
Lowry brancola in una taverna e allora si avvera l’invito del grande poeta: «gravemente procedo in mio cammino/ quando il fine cui tendo, del mio penoso andare,/ non altro sollievo e altro riposo promette/ che il dire» (sonetto 50). Soltanto la poesia permette a Lowry di sfogare il suo disordine, la sua mancanza di certezze, di saltare prodigiosamente, come in un delirio, dalla bufera al pezzente e al bambino, personaggi di un sogno che entra in un dire-mostrare barcollante col quale egli tenta di arginare i suoi errori.
Una poesia, questa, impossibile perché tenta di guarire, come in uno scatto religioso, attraverso la carità e la compassione: che il poeta non riceve ma che è capace di dare.
C’è il caos della sua vita, è vero, ma il caos, «il caos che bramavo» viene sublimato perché riguarda non lui, la sua persona, ma lui come poeta-pellegrino. Ecco allora un’altra poesia di Lowry (Il pellegrino), dove un uomo perduto, insignificante, chiede a un’entità superiore di insegnargli «a navigare i fiordi del caso/ per i meandri della mia ignoranza abissale». E dove convivono l’immagine della scogliera e quella «di strani cacciatori nel cosmo infinito».
Poesia questa come una spirale, del tipo di quelle che, nella natura e nella pittura, ossessionavano Vincent van Gogh negli ultimi suoi tempi. Del tipo di quelle ombre a cui «era il momento di dire addio», come cantava John Keats.
Lo scorpione messicano, il vinagrillo, è tuttavia apparentemente benevolo, è forse come il gusano, la larva della falena affondata in fondo alla bottiglia di mezcal. Ma questo vinagrillo punisce se stesso e si punge a morte. Non ancora questo vale per Malcolm che si affida ai versi come sprazzi di lucidità, «come ordini impartiti in mezzo alla bufera».
«Tre buone azioni contro una vita di errori»: per il poeta parla per un attimo il suo alter ego, il suo Super-Io che si complimenta con lui e gli dice di non cedere; ma ecco sopravvenire una definitiva lucidità masochista, che gli svela i «knots of self», i nodi del sé che finiscono per rimanere aggrovigliati tra le parole della sua resa.
[di Gian Paolo Caprettini]