La nuova Siria post Assad guidata da Ahmed al-Sharaa, conosciuto anche come Abu Mohammad Al-Jolani, capo del gruppo jihadista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e noto in passato per i suoi legami con l’organizzazione terroristica Al-Qaeda, ha deciso di ristrutturare la dissestata economia siriana – provata da anni di sanzioni occidentali – all’insegna di un grande piano di privatizzazioni, secondo i dogmi della dottrina economica neoliberista teorizzata e imposta per anni dalle istituzioni finanziarie occidentali. Il piano prevede il licenziamento di un terzo dei dipendenti del settore pubblico e la privatizzazione delle aziende statali cruciali durante il governo della famiglia Assad. Le principali industrie siriane trattano petrolio, cemento e acciaio. Il nuovo ministro dell’Economia siriano, l’ex ingegnere energetico quarantenne Basil Abdel Hanan, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che si sta verificando un importante passaggio verso «un’economia di libero mercato competitiva», promettendo allo stesso tempo che le risorse energetiche e gli asset di trasporto strategici rimarranno in mani pubbliche. Hanan ha anche specificato che le aziende industriali statali da privatizzare ammontano a 107, senza però fornire i nomi delle aziende in questione.
Come già accaduto in altri contesti, il motivo per dare il via alle privatizzazioni è individuato nella corruzione e negli sprechi pubblici: in un’intervista, il ministro delle Finanze Mohammad Abazeed ha affermato che alcune aziende statali sembrano esistere solo per appropriarsi indebitamente di risorse e per questo motivo saranno chiuse. Secondo Abazeed, l’obiettivo delle riforme, che mirano anche a semplificare il sistema fiscale con un’amnistia sulle sanzioni, sarebbe quello di rimuovere gli ostacoli e incoraggiare gli investitori a tornare in Siria. Dal canto suo, Mohammad Alskaf, ministro per lo sviluppo amministrativo che supervisiona il personale del settore pubblico ha spiegato che lo Stato avrebbe bisogno di un numero compreso tra 550.000 e 600.000 lavoratori, meno della metà del numero attuale. In questo contesto, non sono mancate le proteste dei dipendenti pubblici: i piani di privatizzazione hanno scatenato manifestazioni di dissenso a gennaio in città come Deraa nella Siria meridionale, dove la ribellione contro Assad è scoppiata per la prima volta nel 2011, e a Latakia sulla costa. I dipendenti della Direzione sanitaria di Deraa hanno esposto cartelli con la scritta «No ai licenziamenti arbitrari e ingiusti», mentre secondo un manifestante interpellato dalla Reuters «Se questa decisione verrà approvata, aumenterà la disoccupazione in tutta la società, una cosa che non possiamo permetterci».
Il nuovo governo di Damasco, in particolare il ministro dell’Economia, Hanan, è già corso ai ripari, affermando che la politica economica sarà pensata per gestire le ricadute delle rapide riforme di mercato. Il governo ha dichiarato di voler aumentare gli stipendi statali – che attualmente si attestano intorno ai 25 dollari al mese – del 400% a partire da febbraio e di voler attutire il colpo dei licenziamenti con una buonuscita. «L’obiettivo è bilanciare la crescita del settore privato con il sostegno ai più vulnerabili», ha affermato Hanan. Tuttavia, il malcontento si è già diffuso tra i lavoratori che temono il rischio di una disoccupazione su larga scala in un Paese con un tasso di povertà tra i più alti al mondo, dovuto anche alle sanzioni occidentali. Una preoccupazione che trova conferma da parte di alcuni esperti del settore come Maha Katta, specialista senior in risposta alle crisi per gli Stati arabi presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo la quale l’economia siriana non è attualmente in grado di creare sufficienti posti di lavoro nel settore privato. Secondo Katta ristrutturare il settore pubblico avrebbe senso solo dopo aver rilanciato l’economia: «Non sono sicura che questa sia davvero una decisione saggia», ha affermato.
Non stupisce che il nuovo governo siriano, salutato come “governo di liberazione” dal cosiddetto mondo libero, nonostante sia guidato da una figura inserita nella lista dei terroristi dagli Stati Uniti, stia mettendo in atto le riforme cardine del neoliberismo imposte dalle istituzioni finanziarie occidentali a tutte le nazioni indirettamente controllate da Washington. Si ripete così uno schema collaudato che negli anni Novanta ha portato al collasso dell’economia dell’ex Unione Sovietica, grazie agli interventi del Fondo Monetario Internazionale (FMI) basati proprio sulle privatizzazioni e la deregolamentazione dei mercati, e ancora prima al crollo di quella cilena, dopo il golpe del 1973 orchestrato dagli USA. Un modus operandi che si ripete, nonostante le conseguenze nefaste che si sono registrate ovunque sia stato applicato, e che non prospetta nulla di positivo soprattutto nel contesto della già decadente economia siriana.
[di Giorgia Audiello]