venerdì 21 Febbraio 2025

Che fine ha fatto Fabrizio De André? Confessioni di una reduce di Sanremo

Sanremo è finito. Dopo una maratona di cinque giorni e trentatré cantanti in gara, di cinque serate che hanno monopolizzato le conversazioni, alimentato i dibattiti, creato scandali e dato vita a polemiche potenzialmente infinite possiamo finalmente dirlo: Sanremo è finito. Ma quest’anno, dopo una latitanza di dieci anni dal festival più amato e odiato della musica italiana, posso dire finalmente di averlo visto e di averlo visto fino in fondo. Di averne gustato e sorbito ogni siparietto, ogni gag, ogni momento epico, tragico e melodrammatico, e reduce da questa folle maratona/abbuffata posso trarne una verità. E condividerla con voi. Sanremo a suo modo mi ha dato tanto, perché questo festival con i suoi alti e i suoi bassi è lo specchio più perfetto della musica, e di riflesso della società italiana, degli ultimi trent’anni.

Togliamoci subito il sassolino dalla scarpa: la canzone vincitrice Balorda nostalgia di Olly, giovane cantautore genovese, non mi dice nulla. Ma sono state tante le canzoni che erano in lizza e sono entrate nel podio o non ci sono entrare per un soffio: Volevo essere un duro di Corsi, Battito di Fedez, Quando sarai piccola di Cristicchi, Incoscienti giovani di Achille Lauro, L’albero delle noci di Brunori Sas. Alcune meriterebbe un approfondimento, ma per restare in tema con la canzone che effettivamente ha vinto Sanremo, per tutta la durata del festival il sentimento che mi ha dominata non è stato la curiosità, la meraviglia, la sorpresa, la commozione e no, neanche la noia, ma uno e uno soltanto: la nostalgia.

Il vincitore del settantacinquesimo Festival di Sanremo, Olly con il brano Balorda Nostalgia

Quando durante la prima serata Carlo Conti ha mandato in onda il videomessaggio di Papa Francesco, in sostanza un appello contro la guerra, grande assente del resto dalle canzoni in gara, io mi sono ricordata di quando la guerra qualcuno l’aveva messa in musica. Mi sono ricordata di quando ho visto la guerra con un generale sulla collina, e poi l’ho ritrovata in un campo di mille papaveri rossi. Mi sono ricordata di quando sono stata accanto a Cristo appesa alla Croce e di quando sono stata bambina in Via del Campo. Mi sono ricordata di quando mi hanno derisa e umiliata per la mia bassa statura, di quando mi hanno legata a un palo dell’Hotel Supramonte e di quel «tipo strano, quello che ha venduto per tremila lira sua madre a un nano». Di quando ho imparato che a giudicare sono bravi tutti, perché «si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio». Ma che comprendere, sentire e perdonare sono per pochi

E mentre la kermesse di Sanremo continuava indisturbata, nella mia mente si riaffacciavano i versi de La città vecchia con i suoi ritmi goliardici e i suoi colori.

Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
Quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino
Li troverai là col tempo che fa estate e inverno
A stratracannare, a stramaledir le donne, il tempo ed il governo

Una strofa come questa è senza tempo. I social hanno preso il posto delle taverne e i like e le condivisioni esercitano lo stesso potere narcotizzante del vino, ma quale canzone italiana è riuscita a dare in appena quattro versi un ritratto più perfetto di quest’umanità rassegnata, sconfitta e dimenticata?

Se l’amore libero che costa a bocca di rosa l’espulsione dal paesino di Sant’Ilario oggi non fa più scandalo, chi non si piega e non si omologa, chi insegue la propria passione senza sé e senza ma, desta sempre scalpore. E l’ipocrisia di chi fa la morale agli altri, quando non può più dare il cattivo esempio è sempre la stessa. Certo, se la storia del giovane ladro che va a caccia di cervi nel parco del re per sfamare la sua famiglia sembra appartenere con i suoi toni lamentosi a un passato remoto, la famosa riserva che ha fatto guadagnare a Geordie una «corda d’oro» è il simbolo di quei luoghi simbolo che appartengono a una piccola cerchia di eletti, intoccati e intoccabili. 

Un po’ come per i classici: eterni e senza tempo. Basta aprire una pagina a caso di Tolstoj, immergersi in uno dei monologhi di Dostoevskij per ritrovare l’umanità di oggi e di ieri, santi e peccatori, sognatori, asceti, arrampicatori sociali, borghesucci corrotti e aristocratici indolenti, come sa essere borghese Ivan Illich che si danna l’anima e rinuncia alla sua vita pur di possedere una casa che sia in tutto e per tutto uguale a quell’alta borghesia o dell’aristocrazia. Ma se gli uomini non cambiano, cambiano i loro miti, e cambia la fisionomia dei loro sogni se non la loro essenza.

E allora mi sono domandata: qual è la fisionomia della Città Vecchia di oggi? Chi è che canta, che sta cantando o canterà delle nuove ipocrisie e metterà alla berlina i vecchi professori che di giorno mostrano una faccia e di notte, quando sono lontani dai riflettori della pubblica opinione, ne mostrano un’altra? Chi sta cantando e canterà di questa umanità dolente, e ce ne mostrerà i vizi e le debolezze, la forza e la crudeltà, perché «lo sanno a memoria il diritto divino, ma scordano sempre il perdono». Chi decostruirà i miti del nostro tempo? Chi ne sta mettendo in discussione i comandamenti, radicali, pervasivi, invisibili come tutti i comandamenti? De André lo ha fatto attraverso canzoni come Un giudice, Don Raffaé, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, canzoni che hanno il sapore, il ritmo e il suono della antiche ballate popolari e il piglio beffardo e allegro di un Sostakovic che prende per il naso il potere con quei ritmi così esageratamente trionfali, nati e composti per deriderne le manie di grandezza. 

«Per strade tante facce non hanno un bel colore, qui chi non terrorizza, si ammala di terrore», intona De André che dà voce al malessere sociale e collettivo di chi «aspetta la pioggia per non piangere da solo». C’è un sapore anarchico in una canzone-poema come Il bombarolo che lancia il guanto di sfida ai politicanti di mestiere, ai socialisti da salotto, a quei «profeti molto acrobati della rivoluzione», e poi nella riga successiva, con lo scatto di una nota, il malcontento cessa di essere malcontento fine a sé stesso e si traduce in azione, azione sofferta, maledetta, condannata e condannabile ma pur sempre azione. C’è una forza dirompente nel grido di quel bombarolo che esclama «oggi farò da me, senza lezione».

E mi domando anche: chi è che canterà della guerra? Lui che ha cantato del massacro di Sand Creek e ha messo nelle braccia di Piero un fucile ma gli ha impedito di sparare perché «se gli sparo in fronte o nel cuore, soltanto il tempo avrà per morire. Ma il tempo a me resterà per vedere. Vedere gli occhi di un uomo che muore», non si è pronunciato in roboanti affermazioni contro la guerra. Non ha lanciato appelli in favore della pace, in quei pochi minuti sul palco tra un siparietto e l’altro come fanno oggi gli artisti che chiamiamo socialmente impegnati. Lui la guerra l’ha trasformata in canzone, l’ha messa in musica, e ci ha fatto sentire e vedere e immaginare il colore degli occhi di un uomo che muore. 

E mentre gli usi questa premura,
quello si volta, ti vede e ha paura,
Ed imbracciata l’artiglieria,
non ti ricambia la cortesia.

L’esitazione di Piero, il suo rifiuto di sparare a quel giovane che marcia diretto chissà dove e per volere di chissà chi, di sparare a quel giovane come lui, identico a lui tranne che per un dettaglio, il colore della sua uniforme, ecco il rifiuto di Piero spazza via in un attimo tutta la folle retorica che divide il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici, tra quelli che la guerra la fanno perché hanno ragione e quelli che hanno torto marcio.

Cristiano De André, musicista e primogenito di Fabrizio De André si esibisce in una cover del brano Crêuza de mä con il concorrente Bresh a Sanremo 2025

E sempre lui ci ha consegnato quest’immagine, eterna e universale come sa esserlo soltanto l’arte, di questo giovane che riposa lì, in quel campo di grano, sotto mille papaveri rossi, insegnandoci anche che a «crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio». 

Ma se usciamo dall’universo-mondo di De André, la «notte crucca e assassina» di De Gregori e «quella madre di cinque figli, nati e cresciuti come conigli» vale di più di mille discorsi. De Gregori scrive e dice proprio «conigli» e quest’immagine, questa similitudine ci fa sentire appieno la tragedia di vite umane spogliate di senso, significato e valore. 

Il singolo di Fedez Battito che affronta il tema della depressione, mi ha fatto subito tornare in mente un altro brano, un’altra canzone, forse l’unico grande successo di Alberto Fortis che in tre minuti appena sdogana il tema del suicidio, frantuma la retorica del malato-guerriero, ci fa sentire appieno la tragedia di una vita che si spezza con il suo La sedia di lillà. E poi prende commiato da noi ascoltatori con un verso che si è imprime bruciante nella tua memoria: «sono andato a casa sua, sono andato con i fiori, mi hanno detto che era uscito, che era andato a passeggiare, ma vedevo un’ombra appesa, la vedevo dondolare, l’ombra non voleva stare sulla sedia di lillà».

Perché la buona arte non deve consolare ma turbare, essere la proverbiale ascia che scuota «quel mare ghiacciato che è in noi», come avrebbe detto Kafka.

Il passare del tempo e il suo trascorrere che ha fatto capolino nell’edizione di quest’anno, mi ha fatto invece ripensare al Pensionato di Guccini, la  ballata in onore di un uomo comune, un vecchio professore che non ha brillato né per ingegno né per coraggio eppure canta Guccini «i miei pensieri corron dietro la sua vita, a tutti i volti visti dalla lampadina antica». Con lo sguardo introspettivo di un Pascoli attento a cogliere quei suoni minuti e quelle piccole cose che costituiscono l’architettura, la grammatica interna di una vita, «fra mobili che non hanno mai visto altri spledori, giornali vecchi e angoli di polvere e di odori, fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani, mangiare, sgomberare e poi lavare piatti e mani» e la cupezza di un Montale che mette in musica il mal di vivere ha scritto un brano improponibile, incantabile e invendibile, fuori dalle logiche di qualsiasi mercato, di qualsiasi prodotto di successo, eppure intramontabile. Come lo era la sua Avvelenata, il poema-manifesto di un artista che manda al diavolo il mercato, la musica, la fama e il teatro: «ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni, credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni!»

La solitudine degli esclusi, dei diversi, degli incompresi, grande tormentone di quest’anno, Battisti l’aveva incastonata nell’immagine di quel ragazzo che guardava passare il carretto dei gelati, mentre le atmosfere retrò di Luna di Togni hanno fatto da colonna sonora a tutti i sognatori malinconici di un’epoca.

Naturalmente l’amore è stato il tema portante dell’edizione di Sanremo di quest’anno, ma i vari singoli che si sono succeduti l’uno dopo l’altro, alcuni meritevoli altri meno, mi hanno fatto ripensare a quando ero lì con Margherita a correre e a ballare per le strade «perché lei vuole la gioia, perché lei odia il rancore». Mi sono ricordata di quando ho atteso ore e ore soltanto per un bacio, un abbraccio, una carezza e ogni sera era un’incognita «un’attesa, pari a un’agonia». E poi mi sono ricordata di quando ho perso l’amore, «quando si fa sera», e allora ho avuto voglia di gridare, di «rinnegare il cielo e prendere a sassate tutti i sogni ancora in volo». E di quando capii quanto è difficile essere donna perché no, gli uomini non piangono, e gli uomini non cambiano. Mi ricordo di quando sentii il miracolo di questa voce che cessava di essere voce come se ogni nota, ogni accordo ogni sillaba diventasse un tutt’uno con il cuore ferito di questa donna ferita dalla vita e dal troppo amore.

Passando infatti dal cantautorato alla musica melodica, alla musica leggera, alla musica romantica, se artisti come Giorgia, Annalisa, Achille Lauro hanno belle voci e sanno usarle e scrivono canzoni che trasmettono emozioni, mi sono domandata però: qual è la differenza tra una canzone bella e una indimenticabile? Quando senti Mia Martini che canta «gli uomini non cambiano» capisci che la musica non è una questione di accordi, di note, di voce ma di qualcos’altro. Quel qualcosa che alle volte esce dal corpo di chi la ospita e s’incarna in una canzone, in una nota, in una parola e tu allora la senti tanto intensamente, così fortissimamente come se chi canta ti stesse dicendo: «eccolo qui, il mio cuore messo a nudo». Io non l’ho mai vissuta quell’epoca, sono nata troppo tardi, ma quella musica lì l’ho vissuta, l’ho sentita in ogni muscolo, in ogni nervo, in ogni fibra di me stessa ed è quella la musica che mi è rimasta nel cuore. E ne ho avuto nostalgia.

Lucio Corsi si esibisce durante la prima serata di Sanremo con il suo brano Volevo essere un duro

Certo, Lucio Corsi con quell’aria da menestrello d’altri tempi, di un Charlie Chaplin con la bombetta in mano, l’aspetto androgino alla Bowie e lo spirito fanciullesco di un Gianni Rodari, ha introdotto una ventata di novità e dato uno scossone al festival; ma non basta un singolo come Volevo essere un duro per far sparire la nostalgia.

Perché vedo lo stesso decadimento, lo stesso rimpicciolimento nella letteratura, nel cinema, nell’arte. Mentre nelle scienze tecniche la nostra sarà ricordata come un’epoca di grandi scoperte e grandi  innovazioni, come un’epoca di cose audaci e di aspirazioni audacie, in ambito umanistico, letterario, musicale e artistico siamo come «nani sulle spalle di giganti». E ci sentiamo tali: è questa la vera tragedia. È come se avessimo rinunciato ad essere grandi, ad essere indimenticabili. A fare cose indimenticabili. O forse avremmo bisogno soltanto di un altro David Bowie che ci ricordi: «We can be Heroes…just for one day».

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

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2 Commenti

  1. La nostalgia è dolorosa ( è un algia…). Fa parte della vita che scorre e più la vita si allunga e più, probabilmente, si fa’ sentire. Forse ne soffriamo di più in una “giornata uggiosa” novembrina o in una fredda notte di febbraio che non durante una tiepida notte di inizio estate, dove i ricordi che emergono, ci fanno sorridere. Siamo “comuni” mortali e tutti coloro, quelli prima di noi e quelli che verranno, che hanno imparato a ricordare, ne soffrono e ne soffriranno. Ma è bello e giusto che sia così perché da un lato rappresenta un legame con il nostro passato e dall’ altro uno stimolo a vivere il presente intensamente e ad accettare il costante fluire del tempo.

  2. Proprio non ce la si fa! Non parlo del desolante confronto non tra autori diversi ma tra epoche diverse. Parlo di quel con ”azione sofferta, maledetta, condannata e condannabile ”
    una lettura stravagante, che nella canzone non c’è. Per nulla. Non c’è neanche apologia di quel gesto ma di sicuro non c’è condanna!
    Il trentenne disperato se non del tutto giusto quasi niente di sbagliato.
    Se vogliamo possiamo trovarci il vecchio e sempre solido ”non con le BR, né con lo stato”.

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