sabato 22 Febbraio 2025

L’invocazione di Saffo ad Afròdite (VII-VI sec.a.C.)

Afròdite, dea dal trono screziato,
subdola tessitrice, figlia di Zeus, ti prego,
non soggiogare, eccelsa, alle ingrate
ansie il mio cuore,
ma qui vieni, tu che di lontano
un tempo davi ascolto alla mia voce
e venisti dalla casa paterna
sul carro d’oro.
Ti portavano i passeri, volando
belli e veloci sulla terra nera
e dal cielo agitavano le folte
ali nell’etere.
Rapidi giunsero. E tu, o beata,
con un sorriso sul volto immortale
mi chiedevi perché soffrivo ancora
e ti invocavo,
e che cosa volevo nel profondo
del mio animo folle. 
“Chi di nuovo 
devo persuadere a tornare al tuo amore,
Saffo, chi ancora ti fa del male?
Se fugge sarà lei a inseguirti,
se sprezza i doni li offrirà domani,
se non ti ama, anche contro voglia
t’amerá presto.”
Vieni per me anche ora, scioglimi
dai gravi affanni e ogni desiderio
del cuore esaudisci, nella mischia 
stammi vicina.
 

Vive di una contraddizione l’amore: da un lato appaga, offre pienezza di sentimenti, esalta, dall’altro provoca, non soddisfa del tutto, mette inquietudine.

Per la poesia è sempre stato così: l’amore ‘’ditta dentro’’, detta, scrive dentro di noi, ispira, come dicevano poeti e cantori nel Medioevo.

La voce della poesia, della canzone musicata sa esprimere il lato più controverso dell’innamoramento e dell’amore: l’indifferenza e poi la contesa, la rivalità.

«Ti prego Afròdite, torna ad aiutarmi», implora Saffo che invoca la dea e per lei prova amore, con quel senso religioso della trasfigurazione per cui la dea viene vista muoversi su un carro dorato, luminoso, trasportato nel cielo dal fremito delle ali di passeri.

«Ascolta la mia voce», prega Saffo con parole che tradiscono il senso della sua ode, che è una preghiera. Un’espressione questa che il mondo del melodramma e della canzone, nei secoli seguenti, hanno fatto propria, perché la voce diventi segno di forza, di eros, di appagamento.

Nell’ode scritta da Saffo la dea prende a sua volta la parola, promette a Saffo che lei verrà cercata, che l’amata alla fine saprà apprezzarla.

«Nella mischia stammi vicina»: l’amore ci espone a delle prove, ha talvolta il sapore aspro di una battaglia. Alla dea spetta allora, come un sigillo, quello speciale sorriso enigmatico, promettente ma vagamente ambiguo, che i Greci riservavano all’oracolo, a chi conosceva il sentimento e le sentenze del tempo a venire.

[di Gian Paolo Caprettini]

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