Nonostante per secoli l’Africa orientale sia stata considerata la culla dell’umanità, con la savana come scenario principale dell’evoluzione dell’Homo sapiens, esiste una nuova teoria che sfida questa visione, secondo cui i primi essere umani si adattarono anche alle fittissime foreste pluviale dell’Africa occidentale: è quanto emerge dal lavoro di un gruppo di ricercatori guidato dall’archeologa Eleanor Scerri, il quale ha dettagliato i risultati ottenuti in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. La squadra ha scoperto tracce di strumenti di pietra risalenti a 150.000 anni fa in un sito della Costa d’Avorio, mostrando che i nostri antenati vivevano nel cuore delle giungle e che gli esseri umani si sarebbero in realtà adattati ad una varietà di ambienti diversi ben prima di quanto si pensasse: «Quello che stiamo vedendo è che, fin dalle prime fasi, la diversificazione ecologica è al centro della nostra specie», ha commentato l’archeologa Eleanor Scerri delll’Istituto Max Planck di Geoantropologia di Jena, in Germania.
Nel corso del XX secolo, le ricerche hanno concentrato l’attenzione sulla savana dell’Africa orientale come il luogo primario in cui Homo sapiens è emerso. Gli scienziati, infatti, basandosi su numerosi fossili e strumenti di pietra rinvenuti nella regione, hanno teorizzato che i primi esseri umani fossero ben adattati alla vita nelle praterie, in quanto la savana offriva condizioni favorevoli per la caccia a grandi branchi di mammiferi. Solo molto più tardi, invece, la nostra specie sarebbe diventata abbastanza versatile da sopravvivere in ambienti più complessi e ostili, come le foreste pluviali. Tuttavia, Eleanor Scerri e il suo team hanno messo in discussione questa visione, proponendo che la nostra specie si fosse evoluta in tutto il continente africano, adattandosi a diversi ambienti ecologici. Nel 2020, infatti, i ricercatori avevano iniziato gli scavi nel sito di Anyama e, sebbene la pandemia di Covid-19 abbia interrotto temporaneamente le indagini, gli scienziati sono comunque riusciti a datare alcuni reperti a circa 150.000 anni fa, grazie a sofisticate tecniche geocronologiche.
In particolare, secondo i risultati ottenuti analizzando i resti degli strumenti in pietra rinvenuti, esistevano habitat forestali in Africa occidentale che, sebbene spesso ignorati, hanno svolto un ruolo centrale nella storia della nostra specie. Inoltre, l’analisi chimica dei sedimenti ha confermato che, anche durante l’era glaciale, quando altre giungle africane si ritiravano, Anyama rimase una foresta tropicale lussureggiante. Anche Cecilia Padilla-Iglesias, antropologa dell’Università di Cambridge che non è stata coinvolta nel nuovo studio, ha affermato che il lavoro ha offerto una chiara prova che le persone vivevano in quelle giungle molto prima di quanto si pensasse in precedenza: «È importante perché conferma ciò che altre ricerche hanno previsto», ha dichiarato. Infine, Khady Niang, archeologo dell’Università Cheikh Anta Diop in Senegal e coautore, ha aggiunto che molti dei più antichi manufatti scoperti erano enormi strumenti da taglio realizzati in quarzo, ipotizzando che il popolo Anyama li usasse per scavare cibo o farsi strada attraverso la foresta pluviale: «Se ti muovi molto, hai bisogno di strumenti per tagliare gli alberi che ostacolano il tuo cammino», ha concluso.
[di Roberto Demaio]