In Italia migliaia di persone vivono senza cittadinanza, intrappolate in un limbo giuridico che le priva di diritti essenziali. Sono gli apolidi: secondo le stime, nel nostro Paese sarebbero tra i 3.000 e i 15.000, ma solo poche centinaia hanno ottenuto il riconoscimento formale del loro status. Un apolide è una persona che non possiede la cittadinanza di nessuno Stato (dal greco a-polis, “senza città”) e, di conseguenza, non ha documenti, non può ottenere un passaporto, lavorare legalmente, accedere a cure sanitarie, sposarsi o studiare. L’assenza di un’identità giuridicamente riconosciuta li condanna a un’esistenza ai margini, senza tutele e senza prospettive.
Le cause dell’apolidia sono molteplici e spesso intrecciate tra loro. Una delle principali è la discriminazione su base etnica, religiosa o di genere. In oltre 80 Paesi esistono leggi che negano o revocano arbitrariamente la cittadinanza in base alla razza, alla religione, all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Questo accade, per esempio, in alcuni Stati che impediscono alle donne di trasmettere la cittadinanza ai figli o che escludono determinati gruppi minoritari. Oltre il 75% della popolazione apolide conosciuta nel mondo appartiene a comunità perseguitate. Un’altra causa frequente è il conflitto tra le normative sulla cittadinanza: se un ordinamento si basa sul ius soli (cittadinanza per nascita sul territorio) e un altro sul ius sanguinis (cittadinanza per discendenza), un bambino nato in una zona di confine potrebbe non avere diritto ad alcuna nazionalità. L’apolidia può derivare anche da fattori storici e geopolitici, come la dissoluzione di Stati o il cambiamento dei confini nazionali. È accaduto, per esempio, dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia, che ha lasciato migliaia di persone senza uno Stato di appartenenza.
In Italia, tra le comunità più colpite ci sono i Rom, storicamente definiti un “popolo senza Stato”. Alcuni apolidi sono anche rifugiati, ma non tutti i rifugiati sono apolidi e molti apolidi non hanno mai attraversato una frontiera. L’assenza di cittadinanza li rende invisibili, al punto che stimarne il numero esatto diventa impossibile: si calcola che nel mondo siano circa 10 milioni, ma potrebbero essere molti di più.
Nonostante la Convenzione del 1954 garantisca alcuni diritti fondamentali agli apolidi, ottenere il riconoscimento di questo status in Italia è un percorso a ostacoli. Le procedure sono lunghe, complesse e poco accessibili. Chi riesce a farsi riconoscere come apolide ha diritto, dopo cinque anni di residenza legale, a chiedere la cittadinanza italiana, un requisito più favorevole rispetto a quello previsto per altri cittadini non comunitari. Ma tra la teoria e la pratica c’è un abisso. La naturalizzazione richiede documenti spesso impossibili da reperire, una prova di reddito e la conoscenza della lingua italiana. Questi ostacoli, uniti alla scarsa informazione sulle procedure, fanno sì che solo pochi riescano a ottenere la cittadinanza.
Nel frattempo, l’attesa può durare dai 18 ai 24 mesi, un periodo in cui chi è in attesa di riconoscimento non gode di alcuna protezione legale. La burocrazia italiana richiede prove documentali che molti apolidi non possono fornire, lasciandoli in una condizione di incertezza e vulnerabilità. Inoltre, chi è in fase di riconoscimento rischia perfino l’espulsione, in un paradosso che aggrava ulteriormente la loro precarietà. Anche una volta riconosciuti, gli apolidi continuano a scontrarsi con barriere quotidiane: aprire un conto bancario, ottenere una pensione, affittare una casa o registrare un matrimonio può diventare un’impresa.
Un aspetto particolarmente drammatico dell’apolidia è il suo meccanismo di trasmissione intergenerazionale. In Italia, dove vige lo ius sanguinis, la cittadinanza si eredita dai genitori. Se questi sono apolidi o non riconosciuti come tali, anche i loro figli rischiano di nascere senza nazionalità, condannati a ripercorrere lo stesso destino di invisibilità. In mancanza di una riforma che permetta di acquisire automaticamente la cittadinanza per chi nasce in Italia senza altra nazionalità, questa condizione continuerà a perpetuarsi.
L’UNHCR ha avanzato diverse proposte per affrontare il problema: semplificare le procedure, garantire un permesso di soggiorno temporaneo a chi è in attesa di riconoscimento, raccogliere dati più precisi sulla popolazione apolide e facilitare l’accesso alla cittadinanza per i bambini nati in Italia. Interventi ora più che mai urgenti e necessari per restituire a migliaia di persone il diritto di esistere legalmente.
[di Gloria Ferrari]