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Dentro la nuova Siria, tra timore e speranze di rinascita

Il 2025 è iniziato per me in Siria, circondata da bandiere, canti e tanta speranza per un Paese finalmente unito e libero. Neanche tre mesi dopo, l’equilibrio che lo tiene insieme è sempre più fragile. Raccontare questo Paese senza smarrirsi tra la propaganda delle diverse fazioni non è semplice: troppe voci, troppi interessi intrecciati, troppi fili invisibili che lo legano a giochi di potere. È quindi fondamentale partire dai fatti e, soprattutto, ascoltare il cuore pulsante della Siria: la voce del suo popolo.

In foto: Giulia Cicoli, cofondatrice di Still I Rise

Il bilancio di 13 anni di guerra 

Prima del 2011, la popolazione siriana era composta da circa 22 milioni di persone. Oggi, oltre 14 milioni sono sfollati [1]: 7,2 milioni internamente in Siria e più di 6 milioni all’estero [2]. La guerra ha causato oltre 600.000 morti [3]e ha lasciato più di un siriano su quattro con una disabilità. La Siria è oggi un Paese ferito, con villaggi e città svuotati, un paesaggio segnato dalla distruzione di oltre l’80% delle infrastrutture e dal peso di sanzioni che ne limitano le possibilità di ricostruzione.

In foto: la prigione di Sednaya, ribattezata come ”il mattatoio umano” [foto di Still I Rise]
In più di 13 anni di guerra, atrocità si sono susseguite per mano di molteplici attori, ma il bilancio più tragico ricade sulle spalle di Assad e dei suoi alleati. Secondo [4] il Syrian Network for Human Rights, a loro è attribuito oltre il 90% delle uccisioni verificate di civili. Inoltre, il regime ha fatto sparire 130.000 persone [5]; arresti e torture arbitrarie erano all’ordine del giorno e il sistema di governo altamente corrotto ha trasformato la Siria in un vero e proprio “narco-Stato [6]”, lasciando il 90% della popolazione sotto la soglia di povertà.

Tre settimane dopo la caduta di Assad, ho varcato la soglia della famigerata prigione [7] di Sednaya, un luogo di terrore ribattezzato il mattatoio umano. Lì, migliaia di persone si sono riversate nei giorni successivi all’8 dicembre, disperate nel tentativo di ritrovare i propri cari. La maggior parte di loro però non li ha trovati e ancora oggi, nessuno sa dove — o se —quei corpi siano stati sepolti. Abbiamo attraversato città e villaggi, raccogliendo storie di dolore che si ripetevano con inquietante regolarità. Ogni persona che abbiamo incontrato aveva almeno un caro scomparso, presunto morto. Nella Siria di Assad non sparivano infatti solo i dissidenti, ma anche persone comuni, scelte a caso dalla macchina del terrore.

A Darayya, un sobborgo di Damasco, abbiamo incontrato una donna malata di cancro che da oltre sette anni non ha più notizie di sua sorella e di sua nipote, portate via senza spiegazioni. Ogni tentativo di rintracciarle è stato vano. Fuori Idlib, un insegnante ci ha raccontato la storia di un amico che, un giorno, era semplicemente salito su un pullman per l’università di Aleppo. Un controllo a un checkpoint. Un arresto senza motivo. Non è mai stato trovato.

La fine del regime e l’incertezza del futuro

In un simile contesto, Ahmad Al Sharaa, il nuovo presidente ad interim della Siria, è identificato dalla maggior parte della popolazione come l’uomo che è riuscito a deporre Assad. I festeggiamenti che si sono svolti a dicembre, all’indomani della caduta del regime, non erano tanto volti a celebrare il nuovo governo, quanto piuttosto a esultare per la fine del regime e l’alba di una possibile Siria libera. Piuttosto, suscitano timore i legami passati di Al Sharaa con Al Qaeda e si teme per la sorte che toccherà alle minoranze, specialmente alla luce dei massacri avvenuti [8] nelle ultime settimane sulla costa siriana. Al riguardo, tuttavia, Al Sharaa ha reagito in maniera molto diversa dal suo predecessore, definendo «inaccettabili» i massacri e istituendo una commissione d’inchiesta che (sostiene lui) porterà i responsabili in tribunale, anche se fanno parte del suo stesso governo. 

È ancora presto per dire se Al Sharaa sia davvero il leader capace di portare libertà e unità in Siria: ciò che è certo è che questo desidera la maggior parte dei siriani. E per dimostrare di volersi muovere in questa direzione, il governo ad interim ha recentemente siglato [9] un accordo storico con le SDF, le forze a maggioranza curda che governano la parte Nord-Est del Paese, al fine di integrarle nell’amministrazione siriana e riconoscere loro gli stessi diritti. A prescindere dall’esito di tale accordo, una mossa simile sarebbe stata impensabile sotto la dinastia degli Assad. 

L’abolizione delle sanzione sarebbe un aiuto concreto per la ricostruzione della Siria [Foto di Still I Rise]
Al di là dei problemi settari, spesso alimentati dai media da una parte e dall’altra per portare divisione, la sfida maggiore ora è l’estrema povertà del Paese. Sulla Siria gravano infatti ancora le sanzioni internazionali: nel momento in cui scriviamo non vi sono banche funzionanti nè circuiti di carte di credito attivi, è impossibile importare materiali e le aziende non possono commerciare con l’estero. Ogni tentativo del Paese di rialzarsi risulta, in un tale contesto, estremamente complesso da portare a termine. L’abolizione delle sanzioni, oltre a permettere la ripresa economica del Paese, aprirebbe le porte a esperti internazionali che potrebbero supportare il governo negli sforzi di sminamento, riforestazione, strutturazione del sistema giudiziario e dei diritti umani e intervenire in molti altri ambiti, nei quali i siriani stessi hanno chiesto supporto. 

La diaspora siriana: una risorsa per ricostruire

[Foto di Still I Rise]
Tutti i siriani con i quali ho parlato, tanto all’interno dei confini della Siria quanto all’esterno, condividono un desiderio profondo: ricostruire il proprio Paese senza interferenze estere. Molti dei 6 milioni di siriani all’estero sarebbero pronti a farlo in prima persona, ma sono bloccati dalla burocrazia dei Paesi che li hanno accolti dopo che hanno abbandonato le loro case distrutte e percorso lunghe e difficili rotte migratorie per poter ricominciare una nuova vita. Se fossero libere di muoversi liberamente tra la Siria e i Paesi in cui hanno trovato asilo, e se le sanzioni fossero finalmente revocate, queste persone potrebbero giocare un ruolo chiave nella ricostruzione, riportando nel proprio Paese abilità e competenze e creando legami economici con l’Occidente.

I dubbi su Al Sharaa restano e il rischio che la Siria ricada nel caos è reale. Eppure, dopo anni di guerra, esilio e distruzione, ai siriani dovrebbe essere finalmente concesso il diritto di ricostruire la propria terra. Se esiste una possibilità per una Siria finalmente libera e unita, allora il mondo dovrebbe farsi carico della responsabilità di non ostacolarla.

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Giulia Cicoli

Cofondatrice e Direttrice Comunicazione, Advocacy e Fundraising di Still I Rise. Da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani, gestisce le strategie globali di raccolta fondi e diffusione delle attività dell'organizzazione.