domenica 13 Aprile 2025

Elim, la città indigena in lotta contro le miniere d’uranio

Una remota comunità Iñupiat nel nord-ovest dell’Alaska sta protestando da mesi contro un progetto di estrazione dell’uranio pianificato nei pressi delle proprie terre, denunciando il rischio di contaminazione delle acque, fondamentali per la salute, il cibo e lo stile di vita della popolazione. La società Panther Minerals prevede di avviare l’esplorazione dell’uranio nell’estate nei pressi delle sorgenti del fiume Tubuktulik, nei pressi di Elim, un villaggio Iñupiat la cui economia di sussistenza si basa principalmente sulla pesca e che attribuisce a quelle aree un valore culturale e spirituale profondo. Gli abitanti di Elim si oppongono al progetto sin dal 2024, manifestando forti timori per una possibile contaminazione radioattiva delle acque e del suolo, con conseguenze gravi per la salute. Intanto, nei pressi di Nome, non lontano da Elim, una compagnia canadese intende estrarre grafite nel bacino di Imuruk. Le comunità indigene si sono mobilitate da ogni angolo dell’Alaska per opporsi a quello che definiscono un nuovo attacco alla loro sopravvivenza. Ancora una volta, le popolazioni indigene si confermano all’avanguardia, in prima linea in un ecologismo autentico, radicato nel sociale, nella cultura e nella spiritualità. Un fenomeno che non riguarda soltanto il continente americano, ma che si osserva in ogni parte del mondo.

Nel vento freddo dell’Alaska occidentale, il villaggio di Elim si trova al centro di un acceso dibattito nazionale: fino a che punto hanno diritto di spingersi gli Stati Uniti per assicurarsi i cosiddetti minerali critici? Elim e Nome, comunità a maggioranza Iñupiat, come molte altre realtà indigene dell’Alaska, dipendono dalle risorse ittiche della regione, e quei territori rappresentano un tempio di cultura, spiritualità e tradizioni. Panther Minerals prevede di avviare l’estrazione di uranio nei pressi delle sorgenti del fiume Tubutulik, mentre nei pressi di Nome, non lontano da Elim, la società canadese Graphite One intende costruire una vasta miniera di grafite alla base delle montagne Kigluiak, nel bacino di Imuruk. L’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump ha promosso una spinta estrattivista con lo slogan «Drill, baby, drill». In Alaska si estrae di tutto: petrolio, gas, minerali. Questa è la regione artica degli Stati Uniti, oggi al centro delle strategie di difesa nazionale, sotto molteplici aspetti. Ne abbiamo parlato nell’articolo pubblicato sul secondo numero del mensile de L’Indipendente, in cui si analizzava il rilievo geostrategico assunto dall’Artico.

Le miniere di uranio sono ormai note per la produzione di polveri radioattive e per il deflusso tossico di scorie che contaminano suolo e acqua. Le popolazioni indigene temono che l’esplorazione dell’uranio possa sfregiare la terra in modo analogo alle profonde ferite lasciate sulle terre della Nazione Navajo. Come ampiamente documentato, tra Arizona, Nuovo Messico e Utah, l’estrazione dell’uranio iniziata negli anni Cinquanta ha scatenato un’epidemia di tumori tra le comunità locali. Molti uomini lavoravano in quelle miniere, attratti da un salario in un contesto socioeconomico disastroso, come accade tuttora nella maggior parte delle comunità indigene degli Stati Uniti, comprese quelle dell’Alaska. Entrambi i progetti minerari, pur rappresentando una possibile opportunità in un contesto di profonda disoccupazione, minacciano la pesca e la caccia di sussistenza, oltre alla distruzione di siti sacri. Le comunità dell’Alaska, come Elim, denunciano la carenza di protezioni federali, una supervisione ambientale insufficiente e il disprezzo per il consenso delle popolazioni indigene. Diversi gruppi nativi dell’Alaska si sono uniti per opporsi a quello che considerano un nuovo attacco alla terra, alla cultura, all’economia, alla natura e alla spiritualità. Un ulteriore colpo inferto a un corpo nativo già storicamente smembrato dal genocidio.

Non è un caso che le popolazioni indigene nel Nordamerica come nel Sudamerica, in Africa come in Asia, siano l’avanguardia, la prima linea di un ecologismo che conosce e riconosce le connessioni tra questioni ecologiche, economiche, sociali e spirituali. Su L’Indipendente ne abbiamo parlato spesso. Sempre negli Stati Uniti rispetto alla lotta contro il DAPL, così come gli Hongana Manyawa, uno dei pochi popoli cacciatori-raccoglitori nomadi rimasti in Indonesia, e la loro cacciata del colosso chimico tedesco BASF, in partnership con la francese Eramet, per la raffinazione di nichel e cobalto estratti dalla Weda Bay Nickel. Stesse dinamiche in Africa, tra estrazioni ma anche mercato dei crediti di carbonio. Così come nel Nord, anche in Sudamerica è la stessa cosa. Perché i popoli indigeni non hanno intenzione di arrendersi al capitalismo e conservano la propria memoria, cultura, tradizioni, spiritualità e luoghi sacri. E per questo sono popolazioni che, ancora una volta, vengono prese di mira.

Non è un caso che le popolazioni indigene, dal Nord al Sudamerica, dall’Africa all’Asia, rappresentino l’avanguardia di un ecologismo capace di riconoscere le connessioni tra dimensioni ambientali, economiche, sociali e spirituali. Su L’Indipendente ne abbiamo scritto più volte. Negli Stati Uniti, ad esempio, in riferimento alla lotta contro il DAPL, oppure nel caso degli Hongana Manyawa, uno degli ultimi popoli cacciatori-raccoglitori nomadi dell’Indonesia, che hanno respinto il colosso chimico tedesco BASF, in partnership con la francese Eramet, coinvolto nella raffinazione di nichel e cobalto estratti dalla Weda Bay Nickel. Dinamiche analoghe si ripetono in Africa, tra operazioni estrattive e mercato dei crediti di carbonio. E, come nel Nord, anche in Sudamerica accade lo stesso. I popoli indigeni non intendono arrendersi al capitalismo e custodiscono memoria, cultura, tradizioni, spiritualità e luoghi sacri. È per questo che continuano a essere presi di mira.

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Michele Manfrin

Laureato in Relazioni Internazionali e Sociologia, ha conseguito a Firenze il master Futuro Vegetale: piante, innovazione sociale e progetto. Consigliere e docente della ONG Wambli Gleska, che rappresenta ufficialmente in Italia e in Europa le tribù native americane Lakota Sicangu e Oglala.

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