Nei richiami dei bonobo, tra i primati considerati i parenti più stretti dell’uomo, c’è un principio chiave del linguaggio unico e mai esplorato così approfonditamente fino ad oggi: è quanto emerge dal lavoro di un team di ricercatori delle Università di Zurigo e Harward che, dopo aver analizzato centinaia di ore di registrazioni per anni, hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio scientifico sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Secondo la ricerca, alcune combinazioni di suoni prodotte da questi primati sembrerebbero avere un significato diverso rispetto ai singoli richiami che le compongono, una caratteristica nota come “composizionalità”. Il tutto, secondo gli esperti, indicherebbe un’origine evolutiva molto antica per questa proprietà del linguaggio, anche se alcuni scettici non coinvolti nel lavoro chiedono maggiore prudenza e ulteriori conferme. D’altra parte, nonostante abbiano riferito che ulteriori esperimenti sono già in programma, gli autori ribadiscono che si tratta di una prova più robusta rispetto a tutti gli studi precedenti simili e che i risultati ottenuti potrebbero cambiare il modo in cui comprendiamo le origini della comunicazione umana.
I bonobo, come gli scimpanzé, sono tra i parenti più stretti dell’uomo. Sebbene noti per la loro struttura sociale cooperativa, sul piano linguistico finora non avevano mostrato segni evidenti di quella che gli esperti chiamano “composizionalità”, ossia la capacità di combinare elementi comunicativi semplici in messaggi più complessi, dotati di significato emergente. Questa proprietà è considerata essenziale per la creatività del linguaggio umano: se dire “cane nero”, infatti, è diverso da “cane” e da “nero” presi singolarmente, è perché il significato della frase nasce dall’interazione tra le sue parti. Negli anni, spiegano i ricercatori, alcuni studi avevano suggerito un inizio di questa abilità negli scimpanzé, ma il nuovo lavoro si distingue per l’approccio sistematico: oltre 330 ore di registrazioni effettuate in una riserva nella Repubblica Democratica del Congo, una classificazione dettagliata dei contesti comportamentali, e un’analisi statistica che ha confermato le teorie ipotizzate, ovvero capire se alcune combinazioni di suoni nei bonobo avessero un significato specifico, diverso dalla somma dei significati individuali.
I ricercatori hanno tracciato una sorta di “mappa semantica” dei richiami, simile a quelle usate per le parole nei modelli linguistici artificiali e hanno scoperto che, in quattro casi, le coppie di suoni risultavano significativamente distanti dai singoli elementi sulla mappa, suggerendo la presenza di un significato composto. Una di queste coppie, ad esempio, univa un richiamo acuto per attirare l’attenzione e un fischio grave associato a emozioni intense e, secondo la ricercatrice e coautrice Melissa Berthet, insieme sembrerebbero costituire una sorta di “chiamata d’aiuto”. «Sarebbe come dire: “Prestami attenzione perché sono in difficoltà”», ha spiegato. Lo studio, quindi, rafforza l’ipotesi che anche l’antenato comune tra umani e scimmie potesse possedere rudimenti di composizionalità, anche se non tutti, però, sono convinti: Johan Bolhuis dell’Università di Utrecht, per esempio, ha sostenuto che la ricerca non dimostra una vera sintassi, ma solo un accostamento di suoni. Townsend, tra gli autori, risponde precisando che quanto rilevato potrebbe dimostrare che in questo caso si tratti proprio del primo passo verso un linguaggio pienamente strutturato, emerso poi nei primi esseri umani. In tutti i casi, i ricercatori stanno già pensando al futuro e hanno annunciato che si potrebbe addestrare un modello di intelligenza artificiale a riconoscere i singoli richiami e testare se riesce a dedurne i significati delle combinazioni. Per ora, però, stando alle evidenze, l’ipotesi più suggestiva è che qualcosa di simile alla grammatica possa aver cominciato a emergere molto prima di quanto immaginassimo.