domenica 13 Aprile 2025

Perché la sentenza su Filippo Turetta è importante, anche senza l’aggravante di crudeltà

A suscitare la maggior parte delle critiche sono state, in particolare (complici titoli giornalistici clickbait e interpretazioni frettolose), le motivazioni in base alle quali alle azioni di Turetta non è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Un fatto che ha rapidamente catalizzato l’opinione pubblica su una questione che, come vedremo, è molto più tecnica e meno vergognosa di quanto si potrebbe pensare. In questo modo, però, si è distolta l’attenzione da altri punti che rendono di fondamentale importanza la sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per aver ucciso con 75 coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, l’11 novembre 2023. «Proprio perché non aveva più alcuna speranza e aveva colto l’ineluttabilità dell’allontanamento di Giulia, Filippo Turetta ha elaborato il piano omicida»: è qui il succo di una sentenza che, anche grazie al contraccolpo della vicenda sull’opinione pubblica, appare destinata a costituire un importante precedente nella giurisprudenza, sancendo in maniere netta le «motivazioni futili» alla base del femminicidio di Giulia Cecchettin: non un “raptus”, non un “eccesso di passione”, non il “troppo amore” – come spesso vengono derubricati questi delitti – ma la volontà di controllo, da parte dell’omicida, sulla vita e sulle scelte della donna che considerava propria.

A Giulia sono state inflitte 75 coltellate, alcune delle quali hanno raggiunto degli organi vitali, determinandone così la morte. Pur trattandosi di un numero incredibilmente alto, la Corte spiega che non esiste una soglia di colpi oltre il quale si possa automaticamente parlare di crudeltà. La differenza risiede proprio nel discostarsi del linguaggio tecnico giuridico da quello comune, in uso tutti i giorni. La lunga serie di colpi inferti da Turetta non era un modo, spiegano i giudici, «per crudelmente infierire o fare scempio della vittima». Giulia è stata colpita «quasi alla cieca»: una dinamica non determinata «da una deliberata scelta dell’imputato», quanto piuttosto «dall’inesperienza e dall’inabilità dello stesso». Il ragazzo «non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e “pulito”, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”». Turetta, insomma, non voleva accanirsi sul corpo di Giulia per prolungarne le sofferenze, ma non era in grado di stabilire il numero di colpi sufficienti a ucciderla.

La condanna contro Turetta non si configura come femminicidio per il semplice fatto che la fattispecie è stata introdotta nel nostro ordinamento solamente il 7 marzo scorso, dopo un vuoto legislativo durato anni, e non ha valore retroattivo. Il reato definito fa riferimento al «delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per esercitare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità». Quando si parla di femminicidio, dunque, non ci si riferisce affatto a una questione puramente ideologica, ma a una precisa e (ora) concreta fattispecie giuridica radicata in un contesto specifico, che porta con sé i retaggi della cultura patriarcale, intesa come un sistema di valori che assegna agli uomini potere di controllo sulle donne percepite come di proprietà. Il femminicidio è l’uccisione di una persona di genere femminile motivato dalla volontà di punire una donna che si ribella a una qualche forma di controllo esercitata dall’uomo. Si tratta di qualcosa di ben diverso dall’uccisione di una persona nell’ambito di una rapina, di una rissa o di qualsiasi altra azione violenta, che non trova corrispondenze a ruoli invertiti. E per questo reato specifico la normativa prevede una pena specifica: l’ergastolo.

Il prolungato mancato riconoscimento di un reato specifico, insieme alla retorica emergenziale che da sempre accompagna la narrazione del fenomeno, hanno impedito la messa in pratica di interventi strutturali volti a porre rimedio una volta per tutte a una problematica che riguarda l’intera società. Per averne la conferma basta guardare ai dati: secondo l’Istat, un numero compreso tra l’80 e il 90% degli omicidi di donne avvenuti negli ultimi anni sono femminicidi (o presunti tali, dal momento che fino a un mese fa la fattispecie di reato non esisteva nel nostro Paese).

Di fatto, l’unica iniziativa proposta dall’attuale esecutivo è stata, ancora una volta, offrire una soluzione di natura penale a un problema di ordine sociale e culturale. Poche settimane prima dell’introduzione del reato di femminicidio (proprio alla vigilia della festa della donna), il governo ha pensato bene di dirottare i fondi destinati all’educazione affettiva sulla formazione sull’infertilità. I cinquecentomila euro che sarebbero serviti per educare bambini e ragazzi al rispetto dei diritti umani, della parità dei sessi, al concetto di consenso e a un rapporto sano con la sessualità saranno impiegati per fornire «moduli informativi rivolti agli insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado per aggiornare su contenuti su eventi educativi e corsi di informazione e prevenzione prioritariamente riguardo alle tematiche della fertilità maschile e femminile, con particolare riferimento all’ambito della prevenzione della infertilità».

Le motivazioni della sentenza hanno avuto un effetto divisivo sul mondo dell’attivismo contro la violenza di genere. Se c’è chi, come la sorella di Giulia, si è mostrato profondamente deluso e preoccupato dalle scelte dei giudici, in particolare per quanto riguarda il mancato riconoscimento della crudeltà, c’è anche chi sottolinea come in questo modo Turetta non possa essere riconosciuto come “il mostro”, “l’eccezione”, ma come il prodotto di una cultura distorta, ancora profondamente radicata nella nostra società.

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Valeria Casolaro

Ha studiato giornalismo a Torino e Madrid. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, frequenta la magistrale in Antropologia. Prima di iniziare l’attività di giornalista ha lavorato nel campo delle migrazioni e della violenza di genere. Si occupa di diritti, migrazioni e movimenti sociali.

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7 Commenti

  1. L’articolo e’ molto chiaro. E pone anche questioni di definizioni. Ad esempio i giudici hanno considerato che non c’era “crudeltà” Come definire allora la crudeltà? A mio avviso si tratta di uno stato d’animo che si aggiunge alle motivazioni del fatto. Cioè per uccidere una persona bisogna anche organizzare la propria mente a eseguire un gesto che e’ appunto crudele. Per esagerare non si può ad es. uccidere avendo un sentimento di empatia o di commiserazione. La crudeltà accompagna il gesto. Il patriarcato e’ la definizione di una situazione che ha radici nel profondo della storia umana e che riassume una situazione gerarchica tra i due sessi. Che poi si tratti di un padre o di un amante deluso, ciò non inficia la esistenza di un rapporto gerarchico.

  2. La parola “patriarcato” ha un significato preciso e chiaro. Nel contesto di questo articolo e di questo crimine, non c’entra proprio niente. Ma proprio niente. La Casolaro è infuenzata dalla narrazione propagandistica della povera “ex-sinistra” allo sbando?

  3. Non voglio commentare la risposta… Mi basta leggere che proviene da un commentatore ANONIMO. Ognuno è libero di pensare e scrivere ciò che vuole in modo civile e rispettoso delle opinioni altrui, ma non accetto commenti da individui anonimi e frustrati che si dichiarano lettori de L’Indipendente. L’ anonimato va bene in una cabina elettorale, non sulle pagine di un giornale. Feci, oltre un anno fa, un piccolo rimprovero alla redazione che permetteva la pubblicazione di commenti anonimi ed ora lo ripeto: se si vuole un giornale libero ed indipendente il primo passo è la trasparenza ed il coraggio di sia da parte dei giornalisti che dei propri lettori. Se invece si ha bisogno dei 60 “sporchi” denari di un anonimo chicchessia allora il destino è già segnato.

  4. Omicidio = uccisione di un essere umano di qualsiasi sessi, colore e razza.
    Da quando le donne non fanno più parte del genere umano?
    Se la signorina Casolaro si sente un panda si rivolga dl WWF!
    Non si può leggere in un giornale solitamente equilibrato, l’intero repertorio della propaganda! Poi mi fermo perché è un articolo vergognoso, del giornalismo non c’è neanche l’ombra.

    • Evidentemente lei non ha mai sentito i termini “Infanticidio” (omicidio di un neonato, che secondo il suo brillante ragionamento non è un essere umano) e non ha sentito nemmeno il termine “Parricidio” (omicidio di un genitore, nemmeno loro esseri umani a quanto pare, ma specie tutelate dal WWF). Non ci ha mai pensato che termini diversi esistono perché sono considerati con aggravanti e fattispecie specifiche nei tribunali e quindi necessitano di essere catalogati e definiti?

      Un articolo del genere è “vergognoso” solo per chi non vuole pensare, se crede che parlare di femminicidi sia propaganda credo sia lei in errore, se poi per fare il fenomeno apostrofa come “signorina” una giornalista per sminuirla (cosa che mai evidentemente si sarebbe sognato di fare se il pezzo l’avesse scritto un uomo), può certamente trovare un giornale a lei più consono. Ce ne sono diversi. L’Indipendente è per chi ha voglia di confrontarsi e leggere punti di vista anche diversi dal proprio.

      Buona giornata, Andrea Legni (direttore de L’Indipendente)

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