A suscitare la maggior parte delle critiche sono state, in particolare (complici titoli giornalistici clickbait e interpretazioni frettolose), le motivazioni [1] in base alle quali alle azioni di Turetta non è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Un fatto che ha rapidamente catalizzato l’opinione pubblica su una questione che, come vedremo, è molto più tecnica e meno vergognosa di quanto si potrebbe pensare. In questo modo, però, si è distolta l’attenzione da altri punti che rendono di fondamentale importanza la sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per aver ucciso con 75 coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, l’11 novembre 2023. «Proprio perché non aveva più alcuna speranza e aveva colto l’ineluttabilità dell’allontanamento di Giulia, Filippo Turetta ha elaborato il piano omicida»: è qui il succo di una sentenza che, anche grazie al contraccolpo della vicenda sull’opinione pubblica, appare destinata a costituire un importante precedente nella giurisprudenza, sancendo in maniere netta le «motivazioni futili» alla base del femminicidio di Giulia Cecchettin: non un “raptus”, non un “eccesso di passione”, non il “troppo amore” – come spesso vengono derubricati questi delitti – ma la volontà di controllo, da parte dell’omicida, sulla vita e sulle scelte della donna che considerava propria.
A Giulia sono state inflitte 75 coltellate, alcune delle quali hanno raggiunto degli organi vitali, determinandone così la morte. Pur trattandosi di un numero incredibilmente alto, la Corte spiega che non esiste una soglia di colpi oltre il quale si possa automaticamente parlare di crudeltà. La differenza risiede proprio nel discostarsi del linguaggio tecnico giuridico da quello comune, in uso tutti i giorni. La lunga serie di colpi inferti da Turetta non era un modo, spiegano i giudici, «per crudelmente infierire o fare scempio della vittima». Giulia è stata colpita «quasi alla cieca»: una dinamica non determinata «da una deliberata scelta dell’imputato», quanto piuttosto «dall’inesperienza e dall’inabilità dello stesso». Il ragazzo «non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e “pulito”, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”». Turetta, insomma, non voleva accanirsi sul corpo di Giulia per prolungarne le sofferenze, ma non era in grado di stabilire il numero di colpi sufficienti a ucciderla.
La condanna contro Turetta non si configura come femminicidio per il semplice fatto che la fattispecie è stata introdotta nel nostro ordinamento solamente il 7 marzo scorso, dopo un vuoto legislativo durato anni, e non ha valore retroattivo. Il reato definito fa riferimento [2] al «delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per esercitare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità». Quando si parla di femminicidio, dunque, non ci si riferisce affatto a una questione puramente ideologica, ma a una precisa e (ora) concreta fattispecie giuridica radicata in un contesto specifico, che porta con sé i retaggi della cultura patriarcale, intesa come un sistema di valori che assegna agli uomini potere di controllo sulle donne percepite come di proprietà. Il femminicidio è l’uccisione di una persona di genere femminile motivato dalla volontà di punire una donna che si ribella a una qualche forma di controllo esercitata dall’uomo. Si tratta di qualcosa di ben diverso dall’uccisione di una persona nell’ambito di una rapina, di una rissa o di qualsiasi altra azione violenta, che non trova corrispondenze a ruoli invertiti. E per questo reato specifico la normativa prevede una pena specifica: l’ergastolo.
Il prolungato mancato riconoscimento di un reato specifico, insieme alla retorica emergenziale che da sempre accompagna la narrazione del fenomeno, hanno impedito la messa in pratica di interventi strutturali volti a porre rimedio una volta per tutte a una problematica che riguarda l’intera società. Per averne la conferma basta guardare ai dati: secondo l’Istat, un numero compreso tra l’80 e il 90% degli omicidi di donne avvenuti negli ultimi anni sono femminicidi (o presunti tali, dal momento che fino a un mese fa la fattispecie di reato non esisteva nel nostro Paese).
Di fatto, l’unica iniziativa proposta dall’attuale esecutivo è stata, ancora una volta, offrire una soluzione di natura penale a un problema di ordine sociale e culturale. Poche settimane prima dell’introduzione del reato di femminicidio (proprio alla vigilia della festa della donna), il governo ha pensato bene di dirottare [3] i fondi destinati all’educazione affettiva sulla formazione sull’infertilità. I cinquecentomila euro che sarebbero serviti per educare bambini e ragazzi al rispetto dei diritti umani, della parità dei sessi, al concetto di consenso e a un rapporto sano con la sessualità saranno impiegati per fornire «moduli informativi rivolti agli insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado per aggiornare su contenuti su eventi educativi e corsi di informazione e prevenzione prioritariamente riguardo alle tematiche della fertilità maschile e femminile, con particolare riferimento all’ambito della prevenzione della infertilità».
Le motivazioni della sentenza hanno avuto un effetto divisivo sul mondo dell’attivismo contro la violenza di genere. Se c’è chi, come la sorella di Giulia, si è mostrato profondamente deluso e preoccupato dalle scelte dei giudici, in particolare per quanto riguarda il mancato riconoscimento della crudeltà, c’è anche chi sottolinea come in questo modo Turetta non possa essere riconosciuto come “il mostro”, “l’eccezione”, ma come il prodotto di una cultura distorta, ancora profondamente radicata nella nostra società.