Sin da quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha annunciato dazi sui prodotti in entrata da tutti i Paesi del mondo, il pianeta è entrato in una spirale di caos che rende difficile comprendere cosa stia succedendo. La scelta di autorizzare una sospensione di tre mesi per tutti, tranne che per la Cina ha reso ancora più criptica la situazione. Sono state abbozzate diverse interpretazioni per decifrare la strategia di Trump: il magnate pensava sin da subito di mettere sotto scacco la Cina? La scossa ai mercati e il saliscendi delle borse di tutto il mondo erano volute per permettere la speculazione interna? O forse Trump è solo quell’incomprensibile folle che viene descritto dalla stampa mainstream? Ne abbiamo parlato con Giuliano Marrucci: ex autore del programma televisivo Report e fondatore di Ottolina TV, Marrucci è autore di testi quali Il mito del dollaro (2024, scritto a quattro mani con Vadim Bottoni), L’economia geopolitica di Ottolina TV – Cronaca del fallimento della narrazione economica dominante e Cemento rosso – Il secolo cinese, mattone dopo mattone.
Partiamo dai fatti più recenti. Trump ha annunciato dazi nei confronti di tutto il mondo, per poi ritirarli nell’arco di un paio di giorni. Secondo lei si tratta di una strategia pianificata sin dal principio o è stato costretto a farlo?
Assolutamente è stato costretto a farlo. I dazi sono stati calcolati dividendo la bilancia commerciale degli USA con un Paese per l’export statunitense in quello stesso Paese, dimezzando il risultato ottenuto. Si tratta di una manovra prettamente politica, che non ha niente di tecnico o economico nella sua valutazione. Il crollo delle borse non è stato affatto una sorpresa. Il punto è che, normalmente, quando crollano i mercati azionari i soldi finiscono nei mercati obbligazionari – ovvero, nella maggior parte dei casi, nei titoli di Stato USA. È successo nel 2008, nel 2001, nell’87… il risultato che Trump sperava di ottenere con l’emanazione dei dazi era che venissero comprati titoli del debito statunitense, così da farne crollare i rendimenti e permettere al Paese di pagare meno interessi sul loro gigantesco e inarrestabile debito. I primi giorni, effettivamente, la fuga dei capitali dai mercati azionari è andata in buona parte nei mercati obbligazionari e ha cominciato a diminuire il rendimento dei titoli. Poi, però, questi hanno ricominciato a salire, tornando ai livelli precedenti. Per la prima volta, la fuga dai mercati azionari non ha causato un aumento dei titoli del debito statunitense. In questo modo gli Stati Uniti rischiano di andare in default e non riuscire a pagare i titoli di debito che sono in scadenza. Per questo Trump è stato costretto a fare un passo indietro.
Per quale motivo tagliarli a tutti meno che alla Cina?
Da oltre dieci anni, la Cina è il primo obiettivo degli Stati Uniti. Sia Trump, durante il suo primo mandato, che Biden hanno cercato di porre barriere protezionistiche nei confronti di Pechino, senza riuscirci. Le catene di approvvigionamento sono globali: pur riuscendo a ostacolare i rapporti diretti tra i due Paesi, le misure adottate dagli Stati Uniti non hanno ridotto l’export cinese, che è stato semplicemente rediretto verso altri Stati. Paradossalmente, in questo modo è stata incentivata l’integrazione della Cina con il resto del mondo, rendendola sempre più indispensabile per gli altri Paesi. Da qui, la necessità di imporre dazi su tutti. Non si può pensare di colpire la Cina con il solo protezionismo, se non vengono imposte barriere a tutto il resto del mondo. La speranza di Trump è di essere riuscito a dimostrare che è pronto a condurre una vera e propria guerra atomica commerciale di dimensioni mai viste. Quello degli ultimi giorni è un fenomeno senza precedenti in quanto a dimensioni: il Liberation day annunciato da Trump è il più grosso sconvolgimento del mercato internazionale della storia del capitalismo. Trump spera che la minaccia della scadenza dei 90 giorni sia sufficiente per imporre con la forza a tutti i Paesi vassalli di disallinearsi dalla Cina.
Ultimamente è emersa anche un’interpretazione secondo la quale Trump intendeva manipolare il mercato finanziario per sfruttarne il saliscendi e alimentare la speculazione interna. Una sorta di strategia di aggiottaggio.
Certamente qualcuno può essersi arricchito, ma non credo fosse quello l’obiettivo primario. Le vere ragioni sono strutturali.
Al netto di tutto questo, quindi, qual è l’obiettivo degli Stati Uniti?
È futile parlare di un singolo obiettivo. Ovviamente gli obiettivi sono molteplici, anche se ve ne sono alcuni gerarchicamente più importanti. Uno tra tutti è quello di industrializzare il Paese, che si trova strutturalmente in guerra con un pezzo di mondo in ascesa. E per fare la guerra bisogna produrre l’acciaio, i chip, le terre rare… bisogna insomma avere una base industriale comparabile a quella degli avversari. L’obiettivo di industrializzare gli Stati Uniti sta venendo perseguito da tempo, ma risulta particolarmente difficile raggiungerlo dopo che per 30-40 anni gli USA hanno basato tutto sulla finanza e sulla centralità e stabilità del dollaro. Dopo anni di tentativi, il declino industriale statunitense è continuato come niente fosse: per questo è stato necessario ricorrere a un’arma decisamente più potente. Serviva una shock therapy, una rivoluzione complessiva del meccanismo di accumulazione capitalistica globale nell’ordine di grandezza di quella avviata nel ‘71, quando il Paese ha abbandonato definitivamente il gold standard. Il passo successivo, se riuscisse ad abbassare un po’ il rendimento dei titoli, sarebbe quello di concedere ulteriori tagli fiscali per attirare investimenti negli Stati Uniti e quindi spostarli equilibrando un pochino la bilancia commerciale tra USA e Stati vassalli.
A proposito di politica protezionistica, si sta diffondendo una lettura della mossa di Trump secondo la quale i dazi potrebbero “rompere” la globalizzazione come la conosciamo noi oggi. Nell’ottica di quanto detto finora, cosa ne pensa?
A mio parere la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta è già finita. Al di là del fatto che ora i dazi sono sospesi, la misura di Trump rimane comunque un’operazione di protezionismo ultra violenta. Credo che quello che potrebbe succedere (e che vorrebbe Trump) è che il mondo venga diviso in aree di influenza. Al tempo stesso, Trump punta a ridurre quella cinese il più possibile alla sola Cina, rinchiudendola nel suo orticello. E se è abbastanza improbabile che la Cina ne esca pienamente sconfitta, non lo è pensare di poter ricostruire un impero su scala più ridotta, una sorta di nuova globalizzazione interna alla sfera di influenza degli Stati Uniti, ma dotata di regole più stringenti che permettano agli USA di reindustrializzarsi. La globalizzazione intesa come il sistema di regolazione internazionale di libera circolazione di capitali, merci e persone in tutto il mondo è finita.
In questo scenario non c’è il rischio che il dollaro (che sta già gradualmente venendo ridimensionato) perda il suo primato?
Sì, ma potrebbe continuare ad essere la valuta di riferimento di un impero che include non più tutto il mondo, ma un pezzo consistente. Considerata l’influenza diretta che gli Stati Uniti esercitano in Centro e Sud America, Europa, un pezzo di Asia e così via, è possibile che qui il dollaro rimanga la valuta di riferimento.
L’Europa cosa sta facendo e cosa potrebbe fare di fronte a questo scenario?
L’Europa non sta facendo niente. L’interesse sarebbe, ovviamente, quello di approfittare di questa situazione per prendere definitivamente consapevolezza del fatto che l’impero statunitense è in declino e che, nonostante l’uso della forza, non ha gli strumenti per piegare gli altri. Potrebbe sfruttare l’occasione per andare al tavolo con la Cina e muoversi per ridisegnare un nuovo equilibrio e un nuovo meccanismo di regolazione delle relazioni internazionali. Non è certamente una trattativa semplice, ma nessuno la sta facendo. Il problema è che ancora oggi, a livello di Unione Europea ci sono limitazioni per i contatti tra i parlamentari europei e quelli cinesi. Questa classe dirigente è stata selezionata per trent’anni sulla base della fedeltà incondizionata agli interessi delle oligarchie finanziarie. Oggi c’è da fare una scelta completamente diversa, che questa classe dirigente non è in grado di fare.