Dopo Adidas e Puma, anche il marchio sportivo Erreà si è reso conto che tenere le distanze da Israele e dalla sua federazione calcistica (la IFA) sia la scelta più conveniente. Lo ha fatto a tempo di record, ponendo fine a un contratto mai iniziato con la federazione e assumendosi l’onere di una forte penale economica. Non è chiaro se adesso anche Reebok, nuovo sponsor designato, stia riconsiderando le sue posizioni. Ma andiamo con ordine.
Una lunga serie di contratti interrotti
Nell’agosto 2024 Erreà, azienda di articoli sportivi con sede in provincia di Parma, aveva firmato un contratto di sponsorizzazione biennale con l’IFA, che prevedeva il suo subentro alla multinazionale tedesca Puma. Quest’ultima, nel dicembre 2023, aveva infatti confermato sottovoce la notizia che non avrebbe rinnovato la propria collaborazione con la federazione. Puma non lo ha ammesso ufficialmente, ma la sua rinuncia è il risultato di una campagna di boicottaggio internazionale durata cinque anni. L’azienda aveva sostituito nel 2019 la concorrente Adidas, che a sua volta aveva interrotto il contratto a seguito di una campagna condotta da decine di associazioni sportive palestinesi. Erreà aveva forse pensato di approfittare del crollo del valore economico della sponsorizzazione (superiore al 60%), ottenendo così anche un proprio vantaggio, ma la notizia è stata accolta con una mobilitazione locale e un appello a boicottare l’azienda.
L’Israel Football Association include nei suoi campionati ufficiali squadre delle colonie presenti illegalmente nei territori palestinesi occupati e sostiene il loro mantenimento, contraddicendo il diritto internazionale e il regolamento della FIFA. Questo rende gli organi di governo internazionali FIFA e FIBA complici delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.
Reebok ha spesso mostrato vicinanza a Israele e già nel 2016, a causa delle proteste, dovette ritirare dal commercio il modello di scarpa Israel 68, prodotto per celebrare il 68° anniversario della fondazione dello Stato. Secondo i media israeliani, un nuovo accordo biennale era stato recentemente firmato con Reebok, il cui logo appariva, fino a metà marzo di quest’anno, sul sito web della IFA come nuovo sponsor. Tuttavia, l’azienda è stata messa immediatamente sotto pressione sui social e ha dovuto bloccare i commenti, riaprendoli per la prima volta a metà marzo e ritrovandosi nuovamente inondata da appelli al boicottaggio. Anche se non possiamo ancora confermare che Reebok abbia disdetto il contratto, resta il fatto che il suo logo è stato attualmente rimosso dal sito web della federazione israeliana, che attualmente sta promuovendo le prossime partite di qualificazione ai Mondiali con immagini di giocatori con indosso vecchie maglie Puma. Siamo ancora in attesa che Reebok chiarisca la sua posizione: fino ad allora, continuerà a essere oggetto di boicottaggio.
Nel gennaio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che Israele sta plausibilmente commettendo un genocidio a Gaza. A luglio, ha inoltre stabilito che l’occupazione militare di Israele a Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è illegale. Entrambe queste sentenze rendono imperativo l’obbligo di non contribuire in alcun modo ai crimini commessi da Israele. Ecco perché il movimento BDS chiede anche a Reebok di recedere immediatamente dal contratto con l’IFA, per evitare di essere complice del genocidio, dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi dallo Stato israeliano. Se Reebok dovesse continuare con questa sponsorizzazione criminale, dovrà affrontare una campagna di boicottaggio internazionale, proprio come Erreà, Puma e Adidas prima di loro.
I motivi del boicottaggio sportivo

Il boicottaggio sportivo, come le altre campagne di BDS Italia, è una richiesta che arriva direttamente dalle squadre palestinesi: Israele dev’essere escluso dalle competizioni sportive internazionali finché non cesserà le sue politiche di apartheid e non rispetterà i diritti umani e il diritto internazionale in Palestina. Dall’inizio, nel 2023, del genocidio a Gaza, l’esercito israeliano ha ucciso, oltre a decine di migliaia di civili, almeno 715 atleti e calciatori, tra cui l’allenatore di calcio olimpico palestinese Hani Al Masdar. Ha distrutto o danneggiato tutte le strutture sportive palestinesi a Gaza, raso al suolo gli uffici del Comitato Olimpico Palestinese e occupato lo stadio Al Yarmouk, trasformandolo in un centro di detenzione, tortura e interrogatorio, prima di distruggerlo completamente.
Da anni, Israele impedisce l’importazione di attrezzature e lo sviluppo di strutture sportive. Storicamente, il controllo politico militare israeliano di apartheid, con le sue regole di segregazione territoriale, impediscono la mobilità dei giocatori palestinesi e la loro partecipazione a competizioni internazionali. Questo in aggiunta alla detenzione amministrativa, al ferimento o all’assassinio mirato di atleti palestinesi da parte delle forze israeliane.
La lunga lista di crimini comprende le storie di giovani atleti come Alaa al-Dali, nato a Gaza nel 1997. Alaa al-Dali ha cominciato col ciclismo agonistico a 15 anni, vincendo diversi premi a livello locale e arrivando a qualificarsi per i Giochi di Jakarta del 2018. Tra il 2018 e il 2019 prese parte alla Grande Marcia del Ritorno, protestando pacificamente perché Israele negava, a lui e a molti altri atleti, il visto per partecipare alle gare internazionali. Durante la manifestazione un cecchino israeliano gli sparò, colpendolo alla gamba destra e pregiudicando per sempre il suo futuro di atleta.
Oggi, la rimozione di Israele dalle gare sportive è un dovere politico reso ancora più imprescindibile a causa del genocidio in corso a Gaza e, come conseguenza, delle sentenze della Corte Penale Internazionale.
Il caso calcistico non è il primo episodio in cui BDS Italia lancia una campagna di boicottaggio in ambito sportivo: negli anni sono state diverse le mobilitazioni contro la normalizzazione dei rapporti con lo Stato israeliano attraverso lo sport-washing. Nel 2013 una campagna, lanciata dagli sportivi e dalle sportive palestinesi, chiedeva alla UEFA di rinunciare alla scelta di Israele come Stato per ospitare la Coppa UEFA under 21. Già in quest’occasione sono stati centinaia i tifosi che hanno affisso striscioni negli stadi e le squadre popolari in tutto il mondo che si sono unite alla protesta.
Successivamente in Italia, ogni anno, si sono viste ancora intense partecipazioni alle piazze chiamate per protestare contro la presenza della squadra israeliana al Giro d’Italia e al Tour de France. Durante le Olimpiadi 2024, in Francia, BDS ha portato avanti una campagna per chiedere il rispetto della Convenzione Internazionale contro l’apartheid nello sport, che sancisce l’obbligo di «intraprendere tutte le azioni appropriate per garantire l’espulsione di un Paese che pratica l’apartheid dagli organismi sportivi internazionali e regionali».
Così come è avvenuto per il Sudafrica, formalmente espulso dal CIO nel 1970 per le sue pratiche di apartheid, si chiede a gran voce che ciò avvenga anche per lo Stato di Israele. Nel frattempo, il movimento BDS è attivo sostenitore della campagna Cartellino Rosso a Israele, che vuole l’esclusione delle squadre israeliane dalle competizioni internazionali e la sospensione dagli organismi sportivi internazionali a partire dal CIO, dalla UEFA e dalla Unione Ciclistica Internazionale (UCI), mostrando di essere coerenti con i loro stessi statuti e codici etici.
Boicottare e disobbedire (civilmente). Un mantra di pace.
Se siamo uniti arriveremo al dunque.
Spero che ste guerre abbiano fine.
Mi spaventa la gente che fa finta di niente ed il governo che brama alle nostre spalle….
Molto bene, anzi BENISSIMO. Noi consumatori dobbiamo fare la nostra parte!!