E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio,
al lamento d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero della madre
che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Quest’anno la Pasqua e l’anniversario della Liberazione cadono vicini e la poesia di Quasimodo mi pare intercetti tutti e due i giorni attraverso la Pietà della madre e del figlio.
Forse è sbagliato aggiungere parole perché Quasimodo stesso, da poeta dei tempi arcaici, in attesa di una piena libertà, lascia la sua cetra muta tra i salici, gli alberi che amano lo scorrere dell’acqua, cioè del tempo.
Una cetra mossa appena da quel vento che svolge il suo ruolo anche nel culmine della Passione, come un richiamo alla morte che non è stata vana.
Lasciamo ognuno al canto lieve del proprio cuore, perché ogni sentimento, ogni dolore, ogni passione abbia la propria voce, la propria ragion d’essere.
Senza nulla aggiungere se non l’intensità stupefatta di ciò che completamente non possiamo comprendere.
Come ogni vero sacrificio che si riempie di futuro, di un tempo giusto, senza limiti, come se la perdita contenesse una promessa.