Una squadra internazionale di astronomi è riuscita a documentare quella che si ritiene la prima distruzione di un pianeta da parte della sua stella avvenuta non come evento improvviso, ma come processo lento e inesorabile. È quanto emerge da un nuovo studio condotto sfruttando le analisi effettuate grazie al telescopio James Webb, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica The Astrophysical Journal. Al contrario di quanto si pensava in precedenza, le immagini ad alta risoluzione hanno mostrato che non c’è stata nessuna espansione stellare ma, piuttosto, una progressiva perdita orbitale del pianeta, culminata poi con la sua distruzione. «Dato che si tratta di un evento così inedito, non sapevamo bene cosa aspettarci quando abbiamo deciso di puntare il telescopio nella sua direzione», ha commentato il coautore e ricercatore Ryan Lau, aggiungendo che lo studio ha permesso l’acquisizione di «preziose informazioni sul destino finale dei sistemi planetari, tra cui forse il nostro».
Il James Webb è uno dei più potenti telescopi spaziali mai costruiti. Lanciato nel 2021, è un progetto congiunto tra NASA, Agenzia Spaziale Europea (ESA) e Agenzia Spaziale Canadese (CSA), progettato per osservare l’universo nel dettaglio attraverso la luce infrarossa, quella che riesce a penetrare polveri e nubi cosmiche. Si tratta di una capacità che, sfruttata adeguatamente, permette allo strumento di scrutare fenomeni distanti e oscurati tra cui, appunto, la distruzione di un pianeta. Per quanto riguarda il caso in questione, l’evento XTF SLRN-2020 è stato individuato inizialmente da un progetto chiamato Zwicky Transient Facility – che osserva il cielo ogni notte per catturare fenomeni temporanei come esplosioni o bagliori – ma, in questo caso, fu rilevato con un insolito lampo ottico nel 2020. Inoltre, un anno prima, un altro strumento spaziale della NASA aveva già rilevato un aumento della luminosità nell’infrarosso, facendo sospettare la presenza di polveri: gli scienziati ipotizzarono quindi che la stella stesse invecchiando e si fosse gonfiata a tal punto da inghiottire il pianeta. Tutte ipotesi che, con le nuove osservazioni di Webb, sono state scartate. Attraverso gli strumenti NIRSpec (che analizza lo spettro della luce nel vicino infrarosso) e MIRI (che lo fa nel medio infrarosso) è stata effettuata una vera e propria “autopsia” dell’evento e, combinando i dati, i ricercatori hanno capito che la stella non aveva subito una trasformazione così avanzata.

In realtà, spiegano gli autori, la stella era rimasta relativamente stabile, simile per massa e dimensioni al nostro Sole, ma ancora in fase giovanile. In particolare, gli strumenti del Webb hanno rivelato che si tratta di una stella di tipo K, ovvero una categoria che include stelle più fredde e meno luminose del Sole che possono restare stabili per decine di miliardi di anni. Nessun segno, quindi, di un’espansione tipica delle fasi finali della vita stellare. Il pianeta, piuttosto, ha orbitato così vicino alla stella che, lentamente, è precipitato nella sua atmosfera. «Alla fine, il pianeta ha iniziato a sfiorare l’atmosfera della stella. Da quel momento in poi, è iniziato un processo di caduta incontrollata», ha spiegato il coautore Morgan MacLeod, del Center for Astrophysics di Harvard, aggiungendo che, durante la caduta, il pianeta si è disgregato e ha generato una nube di gas e polveri. I dati di Webb, inoltre, hanno mostrato anche la presenza di un disco circumstellare caldo — ovvero una struttura di gas che ruota attorno alla stella — e hanno rilevato la presenza di molecole come il monossido di carbonio. «Con un telescopio così innovativo come Webb, era difficile avere aspettative su ciò che avremmo trovato nelle immediate vicinanze della stella. Bisogna dire che non ci saremmo mai aspettati di vedere ciò che ha le caratteristiche di una regione di formazione planetaria, anche se qui non si formano pianeti, in seguito a un’immersione. Questo è davvero il punto di arrivo dello studio di questi eventi. È l’unico che abbiamo osservato in azione, e questa è la migliore rilevazione delle conseguenze dopo che le cose si sono calmate. Speriamo che questo sia solo l’inizio del nostro campione», concludono i coautori.