A fare gola alle compagnie minerarie vi sarebbe in particolare la Clarion Clipperton Zone (CCZ), un’area nell’Oceano Pacifico centrale che si stima contenga più nichel, cobalto e magnesio di tutte le fonti terrestri messe insieme. Prima dell’ordine esecutivo di Trump, la società canadese di estrazione The Metals Company aveva annunciato di aver «avviato un processo» per ottenere l’approvazione degli Stati Uniti all’estrazione nella CCZ. «Abbiamo un’imbarcazione pronta per la produzione – ha spiegato l’amministratore delegato dell’azienda Gerard Barron – ci manca solo il permesso per iniziare». Permesso che tuttavia gli Stati Uniti non avrebbero il potere di fornire. Il segretario generale dell’ISA, Leticia Carvalho, ha precisato a Mongabay che «qualsiasi sfruttamento commerciale effettuato nei fondali marini internazionali senza l’autorizzazione dell’Autorità Internazionale costituirebbe una violazione del diritto internazionale». Ad ogni modo, gli Stati Uniti si uniscono quindi alla Norvegia, al Giappone e ad un’altra manciata di nazioni che cercano di avviare una nuova attività antropica di sfruttamento dell’ambiente naturale. Il tutto senza che si abbiano conoscenze sugli impatti per la biodiversità e l’ecosistema marini. Una pratica, in ogni caso, destinata ad amplificare la crisi ecologica e a danneggiare habitat che stiamo appena iniziando ad esplorare e comprendere. Basti pensare che un’indagine del 2023 ha rilevato che nella CCZ vivono almeno 5.000 specie fino ad allora sconosciute.
Le operazioni, sebbene concentrate sulla raccolta dei cosiddetti noduli polimetallici, hanno il potenziale di indurre effetti devastanti sul fondale, come mostrato da alcune esplorazioni pilota condotte in Giappone. Le attività minerarie sottomarine rischiano quindi di compromettere irreversibilmente la biodiversità oceanica, l’equilibrio climatico e la pesca globale. Nonostante gli enormi rischi, gli interessi economici spingono per l’approvazione dei permessi. L’EASAC, ente che riunisce le accademie scientifiche europee, ha invece chiesto una moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde, sottolineando il paradosso che i minerali marini siano indispensabili per la transizione energetica ed evidenziando rischi ambientali potenzialmente irreparabili. L’Unione Europea, dal canto suo, con il Critical Raw Materials Act, punta ad assicurarsi materie prime strategiche, e pur non avendo ancora dato particolare spazio all’estrazione marina dai fondali, non la esclude. L’ISA, ente finalizzato a regolamentare anche queste attività, ha comunque già concesso finora 31 licenze esplorative e la sua capacità di valutare l’impatto ambientale è messa in dubbio da scienziati ed esperti. Nonostante la crescente opposizione globale, da parte di scienziati, ONG, comunità indigene e alcuni Stati per impedire lo sviluppo di ogni forma di deep-sea mining, tutto verrà deciso a luglio 2025, quando l’ISA e i suoi 169 membri stabiliranno se e come autorizzare la pratica.
[di Simone Valeri]