Sanremo è cambiato. Negli ultimi anni la narrativa dominante – arrivata dai vertici Rai, da Amadeus e ripresa abbastanza all’unisono da tutta la struttura mediatica italiana – è stata grossomodo questa. In cosa? Perché la sensazione è che il format, in fin dei conti, sia sempre quello. Lungo, lunghissimo, lento, lentissimo, in cui la musica è un pretesto e un elemento tra i tanti, non l’argomento centrale. È il Festival dell’Italia, non della musica italiana. E poi anche la musica, in fin dei conti, è sempre quella, con poche eccezioni. A Sanremo c’è un codice di canzone che funziona, da più o meno sempre, e quel codice lì viene ripetuto abbastanza pedissequamente anche ora, con buona pace del cambiamento sbandierato con tanto orgoglio. In cosa, allora, è cambiato il Festival? La vera risposta è: negli interpreti e nei partecipanti.
Dalla prima vittoria di Mahmood (non quella in coppia con Blanco con la sanremese Brividi, ma con la rivoluzionaria Soldi), Amadeus, RAI e l’organizzazione del Festival hanno capito che non si poteva più scappare dal rendere la line-up di Sanremo davvero rappresentativa degli ascolti degli italiani.
E allora il mantra è diventato, giustamente, “dobbiamo far contenti tutti” e renderlo il Festival della cultura italiana, dal ragazzo di 18 anni alla nonnina di 80, senza perdere nessuno in mezzo. Amadeus è stato un autentico fuoriclasse in questo. E infatti sono anni che si dice che sia il suo ultimo anno, ma secondo me passeranno ancora diverse edizioni prima che si abbia il coraggio di cambiare una cosa che sta funzionando così bene.
È un Festival più aperto alle nuove tendenze, è vero, ma allo stesso tempo la narrativa del cambiamento di Sanremo è stata raccontata in maniera eccessivamente entusiastica e forse un po’ approssimativa. I giovani si sono avvicinati, eccome: i dati di share, sempre più alti di anno in anno, non possono far capire quanto sia diventato un fenomeno social che ingloba tutto e tutti in quella settimana.
L’elemento che mette un po’ di tristezza è che anche gli artisti più giovani e portatori di nuovi tendenze non sono (quasi) mai andati a Sanremo in questi anni con una versione autentica della loro musica (e forse anche del loro personaggio), ma si sono fatti condizionare dal contesto sanremese (che è quello, lo sappiamo benissimo) e hanno portato canzoni molto vicine alla tradizione e a quello che il Festival è sempre stato.
Anche nei comportamenti, nell’attitudine e nel linguaggio del corpo sono stati molto composti, poco avvezzi al rischio, quasi impauriti dalla forte identità e dalla storia di Sanremo.
Intendiamoci, non si deve per forza andare a Sanremo con l’obiettivo di cambiare il mondo, ma nemmeno ci si deve svuotare della propria originalità e della propria unicità, per piegarsi dinanzi alla tradizione e a quello che Sanremo è sempre stato.
Per capirci: Sanremo è cambiato profondamente negli interpreti, ma diversi artisti fanno le stesse canzoni che si facevano 20 anni fa.
È l’emblema di un Paese vecchio nell’anima e nel cuore, in cui anche i fenomeni giovanili vengono inglobati, per usare un eufemismo, dalla tradizione.
Prendiamo l’esempio del rap perché è senza dubbio il genere dei giovani e quello più diffuso, ascoltato e venduto in Italia. Nessun rapper è ancora andato a Sanremo con un brano più o meno simile a quello che ha sempre fatto. La scelta della canzone è andata nel 90% dei casi verso un brano in qualche modo sanremese. Poi a volte ci sono stati artisti che hanno saputo fare bene quella cosa (vedi Lazza, il secondo posto non è stato un caso) e hanno fatto comunque una bella canzone, altre volte i tentativi sono stati goffi e maldestri, con rapper che all’improvviso hanno provato a cantare ma senza avere la capacità di farlo.
Non sto dicendo questo con tono polemico, perché sono convinto che le cose avvengano per gradi. Schematicamente:
- c’è stata una fase 1 in cui il rap era totalmente fuori da Sanremo (qualcuno si ricorderà l’imbarazzo dell’ospitata di uno dei più grandi esponenti del genere, Eminem, nel 2001);
- siamo ora in una fase 2 in cui i rapper, a patto che capiscano di essere a Sanremo, sono quasi i benvenuti, anzi sono strumenti fondamentali per la narrazione del ringiovanimento;
- ora siamo in attesa di entrare nella fase 3, in cui i rapper avranno il coraggio di andare a Sanremo con il rap.
«Io non voglio essere un prodotto del mio ambiente, voglio che il mio ambiente sia un mio prodotto», diceva Marracash citando il film The Departed.
Io stapperò quello buono, allora, il giorno in cui i rapper avranno l’ambizione di rendere Sanremo un loro prodotto e non andare con un brano che è il prodotto di quello che è Sanremo. Non è facile, ma nemmeno impossibile: il rap ha già dimostrato di saper cambiare in meglio questo Paese. Che anche nel suo prodotto culturale principale si dimostra quello che è: un posto con tante qualità ma che è tremendamente resistente al cambiamento.
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La musica dei giovani in Italia, in poche parole. Questa rubrica nasce con l’intento di spiegare, in maniera semplice, cosa stanno ascoltando i giovani in Italia e perché lo stanno facendo. Troppo spesso nei media tradizionali la narrazione della “nuova musica”, in particolar modo del rap, è distorta e sbagliata, frutto soprattutto di una mancanza di strumenti adeguati da parte dei “grandi” per decifrare quello che sta accadendo. Questa rubrica nasce per provare a cambiare un po’ la situazione e dare a tutti la possibilità di capire meglio cosa sta succedendo oggi nella musica.
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[di Alessandro Quagliata]
Vedendo nell’immagine di “copertina” dell’articolo una fotografia dell’ultimo Sanremo con accanto al “fuoriclasse” amadeus il “comico” fiorello (i minuscoli sono voluti), non può non tornarmi alla mente lo sketch dei due che proprio durante l’ultima Sanremo prendevano, scusate il francesismo, per il culo non tanto i no-vax (così, come scenetta contro i no-vax, l’avevano proditoriamente fatta passare i media mainstream) ma bensì persone che, avendo fiducia nel sistema, erano andate a ricevere il sacro inoculo per poi ritrovarsi con più o meno seri (fino alla morte!!!) problemi fisici, tra cui anche diversi problemi di deambulazione, quelli presi in giro da vaxrello con la spalla di vaxdeus.
Da quella brutta e triste scenetta a casa mia sanno di cambiare canale appena appaiono i succitati soggetti: quello che propongo è quindi di boicottarli in modo sistematico.
Qualcuno potrebbe opporre l’obiezione che in fondo i due hanno probabilmente recitato un copione che gli è arrivato dall’alto.
A questa obiezione rispondo che:
se hanno recitato a pappagallo un copione scritto da altri dimostrano di NON essere quei professionisti come invece, aimè anche qui, vengono spacciati.
Un professionista che si rispetti non può MAI giustificarsi in questo modo, dicendo che la colpa è di qualcun altro al di sopra di lui: di quello che fa e che dice DEVE sempre prendersi la responsabilità di prima persona.
Se invece si fossero resi conto della brutta e veramente misera e penosa gaffe, se si fossero comportati da professionisti, avrebbero dovuto ufficialmente chiedere scusa a tutte (poche o tante che siano) le persone che si sono loro malgrado trovate nella situazione “canzonata”.
Io non ho visto da nessuna parte le scuse di nessuno dei due gaglioffi e mi piacerebbe che questo giornale, cui sono abbonato, riprendesse almeno in un articolo dedicato la memoria del brutto “scivolone” fatto dai due.
Mi dispiace molto sentir parlare del vaxdeus come di un “fuoriclasse” senza sottolinearne questa clamorosa caduta, di stile e soprattutto di professionalità. Professionalità per la quale viene tra l’altro profumatamente pagato anche con le nostre tasse.
Io credo che, indipendentemente da come la si pensi sui farmaci di qualsiasi tipo, sia sempre da biasimare chi cerca furbescamente di strumentalizzare le persone che soffrono per farsi scherno di loro.
Mi piacerebbe almeno un articolo qui su L’Indipendente o un post di Matteo Gracis sull’argomento: l’anno scorso i due l’hanno passata liscia perché appunto il mainstream ha fatto passare la scemenza come polemica contro i no-vax, mentre era evidente la presa in giro delle persone che, tra l’altro proprio anche in quel periodo, soffrivano di quei disturbi.
Su questi argomenti per me non ci possono essere attenuanti: per il perdono le scuse pubbliche altrimenti l’oblio.
Grazie della, eventuale, attenzione.
Giuseppe
Ciao Giuseppe! Seppur in totale accordo con quanto hai scritto credo che la rubrica abbia il senso specificato alla fine dell’articolo. E comunque il termine “fuoriclasse” credo sia stato utilizzato per sottolineare quanto il personaggio sia stato in grado di plasmare con grande efficacia, questo festival della canzone (…) a seconda delle necessità del sistema.
Credo che Sanremo rispecchi la società italiana, approssimativa nella scena artistica, bigotta nella critica ed ipocrita perché si vuole dare arie da mentalità aperta mentre è un contesto ottuso e classista in cui emerge soltanto chi ha la faccia tosta di porsi secondo le aspettative del pubblico e degli organizzatori, diventando lo stereotipo grottesco della maschera di se stesso.
IO stapperò quello buono quando Sanremo sarà abolito.