domenica 24 Novembre 2024

Senza magia non c’è informazione

Se l’informazione, prima di tutto quella giornalistica, su carta stampata, teletrasmessa oppure online consistesse in un resoconto asciutto, in un verbale, o anche in un elenco di fonti, pochi la apprezzerebbero. Se è stato ampiamente diffuso (ho detto diffuso, non applicato!) il principio di separare i fatti dalle opinioni, è altrettanto vero che tutto si trasforma in segno quando viene indirizzato a qualcuno, e quindi bisogna sapersi impadronire di meccanismi, capacità e anche artifici per manovrare simboli con una certa efficacia. Ci vuole una qualche spinta verso l’inventiva, la creatività, direi quasi verso la stravaganza e la magia. Vedremo poi perché.

Osserviamo, prima di tutto, che la pratica dell’informazione ha subito una trasformazione epocale negli ultimi decenni, principalmente perché certi suoi concetti di base sono mutati o scomparsi, rendendosi quasi irriconoscibili: parliamo dell’industria, del consumo, dell’opinione pubblica. Tre mondi che, rispetto all’informazione, non hanno più nulla a che vedere con quelli del Novecento, con quelli di ancora vent’anni fa.

L’industria ‘classica’ di fatto superstite, con i suoi schemi produttivi, è quella dei network televisivi dove, appunto classicamente, il consumo del prodotto consiste nel partecipare da remoto a un mix di intrattenimento e indottrinamento, con una oscura aggravante: fare ritenere che la televisione sia migliore della realtà e che, a parte la cronaca, funzioni da rifugio consolatorio mentre fuori la civiltà ansima e il sistema soffoca. I format tv di discussione e dibattito riflettono a loro volta il clima di sfogo rozzo e istintivo che regna in certi social, tanto poco social che la società vera è in ritirata, assediata dall’inefficienza e dall’arroganza. Diciamo poi che il consumo dei media non esiste più nel senso di consumo di merce, esiste un consumo soltanto come occupazione passiva o isterica di spazi di ascolto o di commento, dove i feedback sono soltanto apparenti. Una situazione che spiega perché l’opinione pubblica non esiste più, perché la creazione di una coscienza comune si è trasformata in subordinazione passiva, principalmente, a mio parere, per la fine di una competenza, di una sensibilità e di una attività politica.

Potrebbe allora sembrare inutile, se non perfino dannoso, ragionare ancora una volta, sia pur brevemente, di informazione, comunicazione, media. A distanza di oltre mezzo secolo dalla celebre intervista di Marshall McLuhan su Playboy, dopo i suoi vaticini, le sue previsioni, le geniali osservazioni sul destino dei media, c’è il rischio di vedere tutto come una conferma o una smentita di quanto da lui affermato. Che tutti gli strumenti di comunicazione siano estensioni dell’uomo, dall’alfabeto all’automobile, ai computer, lo abbiamo accettato e verificato, anche perché era stata l’antropologia, prima di McLuhan, a farcelo capire. Che poi avremmo delegato sempre di più a macchine esterne l’elaborazione del nostro pensiero, sino a ritenere che la nostra mente venga costituita proprio da questi apparati, col tempo lo stiamo verificando. Che infine i poteri mondiali o mondializzati passino attraverso una globalizzazione non soltanto delle coscienze ma anche delle più varie operazioni cognitive e pratiche, sino alle scelte macroeconomiche e politiche, ma anche etiche, sanitarie, ecc. ecc., da qualche anno lo stiamo sperimentando.

A tutto ciò sento che si aggiunge una mia responsabilità personale, quella di aver contribuito ad avviare, oltre trent’anni fa, nelle Università italiane i corsi di laurea in Scienze della Comunicazione, una svolta importante ma controversa che ha posto al centro degli interessi intellettuali della formazione accademica di tipo umanistico le tecniche e gli orizzonti implicati nello sviluppo dell’attività di comunicare: con le inevitabili forzature, dando cioè il primato alla veste del messaggio piuttosto che al suo contenuto e facendo così dipendere l’efficacia dai fattori estetici piuttosto che dai valori veicolati; e in tal modo orientando verso una risposta immediata, basata sul gradimento e sulle impressioni piuttosto che su un esame razionale: di tutto ciò ora vediamo i risultati nei social governati dai meccanismi emozionali della attrazione o della repulsione, spesso senza alcun margine di rettifica o di discussione.

Ma diciamo pure che l’informazione è altra cosa, soprattutto l’informazione in campo giornalistico, perché essa sta nel cuore dei fatti, delle loro cause e delle varie interpretazioni possibili. L’informazione, diremmo, ha a che fare con la realtà. Ma forse qui ci sbagliamo. L’informazione parte sì dalla realtà ma traduce quest’ultima in linguaggio. E dunque coinvolge anche particolari domini psicologici che spettano al linguaggio come sistema di relazioni: ecco allora la chiacchiera, la confidenza, l’insinuazione, la rivelazione, il dibattito, la testimonianza, il resoconto, l’intervista. Tutto ciò implica un lavoro con altri soggetti, un trattamento speciale degli interlocutori, una visione d’assieme che inevitabilmente veicoli, o faccia veicolare, ipotesi sui fatti. L’informazione un po’ è letteratura, un po’ è psicologia. La politica, l’economia, le ideologie e le ragioni di potere arrivano dopo a modellare il discorso o arrivano prima a condizionarlo. Ma è il discorso informativo a prendere posizione al centro dell’arena. Lui è la vittima e il carnefice della realtà. Sono le parole a fare le cose.

Di conseguenza, la scarsità del vocabolario, l’uso compiacente di una grammatica sgangherata, la confusione, nei servizi giornalistici o nelle interviste, tra discorso diretto e discorso riferito sono tutti fattori che generano insicurezza in chi ascolta e soprattutto l’impressione che in quel frangente non venga svolto un lavoro di informazione con i suoi inevitabili dati e opinioni contrastanti ma semplicemente un rapporto anonimo dall’orientamento prestabilito.

In conclusione, vorremmo dire che la magia ha a che fare con l’informazione nel senso che la magia ha la facoltà di affiancare alla percezione dei cinque sensi qualche cosa di imponderabile. Come annotava Kapuscinski, «i media, divenuti una potenza, hanno smesso di occuparsi esclusivamente di informazione. Si sono prefissi una meta più ambiziosa, quella di creare la realtà» (Autoritratto di un reporter, Feltrinelli 2006, p. 87).

Prima però di questo orizzonte ideologico e manipolatorio, prefigurato, tra gli altri scrittori, da Phil Dick, la magia in questione attiene ad una capacità di visione: perché dappertutto esistono «vette nebulose» – come scriveva Garcia Marquez nei suoi Scritti costieri ,1948-1952 (Mondadori 1997, p. 332) – in cui occorre tuttavia orientarsi, e perché qualsiasi sensazione può essere rettificata. Ad esempio, anche il terrore vive ai confini del discredito, come il caso dello spaventapasseri che da lontano incute ansia ma visto da vicino mostra «l’inoffensiva serenità di una cosa cenciosa» (p. 8).

Ogni fatto, ogni oggetto, dal livello della produzione si converte in consumo ma appena si fa consumo concorre a una nuova produzione di senso. Questo processo, individuato da Marx, veniva poi reso dal filosofo Peirce, verso la fine dell’Ottocento, con l’idea dell’interpretante infinito, a séguito della convinzione, della speranza, che il senso non venga fissato una volta per tutte ma venga trasformato, dagli usi e dalle interpretazioni, in qualcosa di più semplice o di più complesso.

Tutto ciò può però avvenire se si lasciano delle porte aperte, se all’ovvio si accosta l’eccentrico, al probabile il desiderabile. Questo per dire che il giornalista deve avere un sesto senso, non fermarsi alle apparenze, al sentito dire e purtuttavia utilizzare qualsiasi fonte senza scartarla a priori.

Si è prodotta, in modo dilagante, una visualizzazione delle parole, un loro uso estemporaneo, effimero, talora suggestivo che le ha sottratte al loro ancoraggio a stampa e al loro compito, come osservava McLuhan, di «classificare le esperienze in unità uniformi e continue». Di conseguenza l’informazione, sia quella pubblica istituzionale sia quella spontanea dei social, potrà continuare a dare certezze ma non si potrà sottrarre agli orizzonti ipotetici delle sliding doors. Il primato del visivo nella comunicazione ci ha infatti riportato a spinte arcaiche primordiali, a quella azione dell’immaginario, a quella potenza indistinta degli archetipi che, ci auguriamo, nessun potere riuscirà a sopprimere.

[di Gian Paolo Caprettini]

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4 Commenti

  1. Articolo interessante e umanamente comprensibile, personalmente ho tanto atteso i computer che giocavano a scacchi perché non sopportavo la presunzione stupida dei campioncini e finalmente vedo che avevo ragione: Gli umani a scacchi fanno solo pena anche e specie i campioncini.
    Oggi provo lo stesso per i Giornalisti di cui accenna questo articolo, ancora legati agli ideali Ottocenteschi dell’ intellettuale che aveva capito tutto e dava degli scorsi di verità ai lettori, intellettuale rigorosamente studiato che aveva gloriosamente imparato in cinque anni a tradurre quindici righe di Greco in quattro ore e servito da una badante rumena che il Greco lo aveva imparato in tre mesi, ma l’intellettuale scemo era sempre lui, come mostrava la sua prestigiosa vita sociale!
    Presto l’intelligenza artificiale farà ai giornalisti quello che è già avvenuto coi giocatori di scacchi: Gli reinsegnerà le basi che ora sono solo di supponenza.

    • Non si preoccupi per cosi’ poco. Con molte probabilità, lo stesso autore di questa accozzaglia di stronzate non saprebbe spiegare quello che ha scritto ovvero egli – evidentemente – NON E’ ASSOLUTAMENTE IN GRADO di proporre gli STRUMENTI pratici ed adeguati, LE SOLUZIONI e I METODI alfine di profittare e servirsi delle “spinte arcaiche primordiali, a quella azione dell’immaginario, a quella potenza indistinta degli archetipi che, ci auguriamo, nessun potere riuscirà a sopprimere”. Quali e che cosa siano dette SPINTE ARCAICHE PRIMORDIALI (notare l’inutile pleonasmo) o, meglio ancora, COME si traduca oggi, nel tempo della ‘cultura dello schermo’ e della compulsività digitale (che dura dai tempi del telecomando), “l’azione dell’immaginario’ non è dato sapere. “Potenza indistinta degli archetipi” E IL VANEGGIAR M’E’ DOLCE IN QUESTO MARE.

      Tra i leggendari personaggi di PEREGO e CETTO LAQUALUNQUE con una punta di EPIFANIO, quel mattacchione di Antonio Albanese saprebbe ispirarsene per restituirci un esilirante machera dell’intellettuale che si gongola nel e del suo almanaccare. Avremmo cosi’ IL MENOLOGO, ovvero colui che si bea delle sue MENATE e ne fa un MONOLOGO.

      • Buongiorno, mi chiamo Valeria Casolaro, della redazione de L’Indipendente. Nella sezione commenti è richiesto di mantenere un linguaggio rispettoso ed educato: per quanto sia perfettamente legittimo essere in disaccordo con gli articoli (o non comprenderne il contenuto), non sono accettati in nessun caso turpiloquio o insulti di qualsiasi genere. Grazie.

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